Delicatamente Dio
In "Il vecchio al mare" Domenico Starnone atomizza in poche scene la grazia, l’erotismo, la crudeltà, la bellezza di un’esistenza pronta alla fine

di NINA ALTONI

« Saranno le tre, un’ora in cui non c’è cosa che abbia una sua definizione, anche io mi sento sempre più indefinito ».

La presunzione di essere vecchi di solito accompagna e sostiene il lento declino della senilità, appoggiandosi a moralismi e indici di mani decrepite sventolati a mo’ di tergicristallo delle profondità spaziali, a ribadire qualcosa che solo un anziano ha il diritto di rivendicare. Nel Vecchio al mare però moralismo e zoccoli di legno pronti al lancio, rimangono un pensiero ipotetico infatuo. Un romanzo senile, senza alcun dubbio, ma che si permea di sensibilità facendosi esperienza d’ognuno, indipendentemente dall’età: semplicemente che sa rendere partecipi di una vita. Una vita che lentamente si approssima alla sua fine con l’inesorabile consapevolezza di chi ha rinunciato da tempo a ogni lotta. Una coscienza sempre più indefinita che si rifugia sigillando il giorno tra le righe di un quaderno che Nicola, il protagonista, scrive giornalmente, seduto fronte mare sulla sua seggiola smontabile, dipanando la matassa di ricordi che come onde sparse sulla rena, tornano in superficie al momento più estremo dell’esistenza della persona.

« Sono scontento di come, in certi momenti, la linea di confine tra me e il resto si assottigli, ho paura di spezzarla, specialmente di notte ». Nei giorni in cui il lettore segue Nicola nella sua quotidianità, la senilità si fa coscienza cruda e assieme lieve, che porta con sé il riserbo e l’onda del passato, la famiglia larga e spersa, l’iterazione delle memorie sempre più viva, sempre più fioca, che Nicola cerca di sbrigliare tra le righe delle sue pagine.

La scelta fuorviante di attribuire al romanzo un titolo simile a un altro caposaldo della letteratura, mette in guardia ma pure attira per l’audacia. Lo stampo hemingwayano che Starnone cerca, forse per inserire quel velo di ironia che è giusto mettere sul tavolo quando la senilità incontra altre esperienze letterarie distanti e assieme comuni, rende i due romanzi similmente agli antipodi: passato e presente si dispiegano in nature lontane, nelle quali però similmente le esperienze passate prosciugano e assieme vitalizzano il giorno in più che ciclicamente viene regalato ai protagonisti dalla vita.

Acciacchi in contrasto a una vitalità quasi ribelle non mancano ne Il vecchio al mare, ma la meraviglia di questo ultimo romanzo di Starnone sta proprio qui, in questo connubio di vita e insofferenza passiva che si manifesta di fronte al proprio tramonto.

« L’unico dio che un po’ mi piace è quello che quando si rende conto che le sue creazioni sono senza capo né coda, a scadenze fisse cestina tutto, altro che medagliette, altro che bandolo ». Il dio che cestina, insoddisfatto delle proprie creazioni, ma inarrendibile, si riflette nell’anziano protagonista e nella sua inesausta attività di scrittore che scandaglia il passato i cui refusi gli hanno portato l’attuale presente: matrimoni da rimpiangere, figlie a cui ripensare, nipoti cui insegnare a crescere.

Il titolo di questa recensione, Delicatamente dio, diventa il riassunto fraseologico di un senso, di un sentimento condiviso tra il protagonista, lo scrittore e il lettore, che assieme alla presenza di una giusta dose di pause che atomizzano in poche scene fondamentali la grazia, l’erotismo, la bellezza, la semplicità, la crudeltà, la purezza, danno vita a recalcitri lirici di un’esistenza pronta alla sua stesa fine. La commozione regalata dal pomeriggio nella boutique di vestiti della signora Evelina, dove donne scostanti e pettegole si dilettano nel far ondeggiare sete e giacche e soprabiti, rilegando, altezzose, il protagonista a presenza voyeuristica e un po’ nostalgica su un divanetto laterale; il fantasma della madre sarta, che Nicola rivede in una giovane commessa del negozio, Lu, tanto attraente e simile quanto diversa dalla sua Rosa; o ancora la fantasticheria su una piovra gigante che segue le vicende e le relazioni che Nicola intrattiene con il piccolo figlio di Lu.

Lo Starnone scrittore si fa riflesso di questo mediocre scribacchino ateo, cinico e assieme sentimentale, sconfitto ma pure tenace di fronte alle naturali avversità della vita: si impunta nel voler imparare da Lu ad andare sul kayak, annienta la banalità riducendola a qualcosa di ineffabile. Un lirismo misurato scavalca il tempo e accarezza delicatamente i giorni di mare di questo vecchio, lo obbliga a un confronto con sé stesso e lo accoglie in un presente che è dono indicibile e condanna inconciliabile, solida prova che quel cestino di dio, ma anche di Domenico e di Nicola, resta e sempre resterà l’ultima consolazione con cui riempire gli avanzi di vita restanti.