di NINA ALTONI

Quando e perché hai iniziato a suonare?
La mia formazione musicale è iniziata a 7 anni, ho cominciato con la batteria, già suonata da mio nonno, anche lui musicista. Purtroppo ho perso presto l’interesse e da quel momento la musica mi è sembrata assumere un ruolo passivo nella mia vita. Tuttavia, in prima liceo, mi sono iscritto per sbaglio a un corso opzionale di chitarra. Mi è piaciuto e così mi sono riavvicinato a quella realtà abbandonata anni prima.
Nel febbraio del 2020, durante la quarantena, ho ripescato la vecchia tastiera di mio padre, anche lui musicista, e ho scoperto una passione per il jazz che ho perseguito da autodidatta.
Rientrati a scuola, in seconda sono passato al liceo musicale, grazie al quale ho potuto acquisire una base teorico-nozionistica, a supporto dello studio autodidatta del jazz.
Come impieghi la tua quotidianità conciliandola con il jazz, le prove, i giri di piani liberi…?
Ci sono state tre fasi.
La prima è stata quando ero al liceo, dove alla musica dovevo alternare la scuola. Qualsiasi minuto libero lo dedicavo al pianoforte. Non potendo sottrarre tempo eccessivo alla scuola, ho iniziato a sottrarlo alla vita sociale, scoprendo in me un carattere più solitario di quanto credessi.
La seconda fase, è stata quando ho dovuto svolgere il servizio civile: lavoravo 8 ore al giorno e il resto del tempo lo dedicavo alle prove le band e alla pratica strumentale.
L’ultima fase è quella presente. Studio jazz al Jazz institute della Basel academy of music e posso dire che la mia vita ora è dedicata completamente alla musica.
Tu suoni il pianoforte, ma suonicchi anche altri strumenti… quali? Che importanza ha per te ha la capacità di sbrigliarsi su più strumenti?
Il mio portfolio strumentale è principalmente il pianoforte, ma ho ancora le basi liceali della chitarra. Poi c’è la batteria, il secondo strumento scelto all’università, e ancora la tromba, prestatami da un amico, che ho iniziato a suonare quest’estate e che suono regolarmente per tenermi allenato.
Riguardo all’importanza della polistrumentalità, ritengo non sia necessaria, ma estremamente d’aiuto: ogni strumento ha le sue caratteristiche e imparando a gestirle si acquisisce maggior controllo su ciascuna di esse, finendo anche, indirettamente, per appropriarsi maggiormente di quelle del proprio strumento.
Per esempio, il pianoforte è caratterizzato dall’armonia, la batteria dal ritmo, la tromba dal suono. Conoscendo e sapendo gestire queste caratteristiche, la pratica del proprio strumento, nel mio caso il pianoforte, evolve per conseguenza logica.
Che percezione hai per il mondo musicale? In particolare per il jazz? Il suo stato attuale, le sue evoluzioni e l’eredità dal passato, la possibilità di una carriera e gli sbocchi che dà.
La musica non è più al centro del mondo, se mai lo è stata, ma lo sono i soldi. L’industria vuole costruire dei personaggi piuttosto che dei musicisti, tralasciando la qualità della musica. La colpa è principalmente del pubblico, che cerca un tipo di musica facile, che non richieda attenzione e preparazione, una musica che possa essere servita su qualsiasi piatto a qualsiasi ora (passami la metafora).
Riguardo al futuro… non saprei. È indubbiamente difficile farne una professione, a meno che non si alterni alla musica l’insegnamento. Diventare musicista e vivere unicamente di musica è praticamente impossibile.
Per quanto riguarda il jazz oggi, è considerato un gusto di nicchia. Lo apprezzano da un lato i tradizionalisti, che predicano con lo sguardo rivolto solo al passato e discriminando il jazz moderno, rischiando di portarlo all’autodistruzione. Dall’altro ci sono i futuristi, o modernisti. Sono le nuove generazioni, con una mente aperta allo sperimentalismo, che mischiano il jazz con influenze esterne e gli permettono di crescere ed evolvere.
L’estate scorsa hai partecipato all’Umbria Jazz Clinic, vincendo inoltre una borsa di studio semestrale alla Berklee di Boston. Che tesoro hai fatto di quest’esperienza?
Partecipare e vincere sono stati un onore e un’immensa sorpresa. La realtà del canton Ticino è molto ridotta e a Perugia mi si sono aperti gli occhi sul livello e sulla qualità di molti musicisti italiani e internazionali.
Ciò che più mi è rimasto sono i contatti creati con altri artisti e la possibilità di collaborazioni. Per esempio, un sassofonista friulano aveva bisogno di una parte di piano per un pezzo che stava scrivendo e mi ha contattato.
Aver vinto la borsa di studio, nonostante abbia provocato in me anche una specie di rifiuto, mi ha fatto molto bene, ha aumentato la mia autostima, è stata una conferma di cui sentivo di aver bisogno.
Se pensi al tuo passato, ci sono dei momenti chiave di formazione artistica che ti porterai nel cuore per sempre?
Il primo nel giugno del 2023. È stata la prima volta che uno dei gruppi con cui collaboravo, il Low Five, è stato invitato al Festival Jazz di Ascona. Ogni sera nelle jam session, si ascoltano e si suona con i grandi nomi del jazz mondiale. Dei ragazzi della Stanford University con un livello straordinario mi hanno sbalordito. Non volevo suonare, mi intimorivano, ma decidendo di sfidare me stesso mi sono messo in gioco. Sento che da quella sera qualcosa nel mio modo di suonare è cambiato radicalmente.
Il secondo è stato nell’ottobre di quest’anno. A un corso ho avuto l’opportunità di seguire una lezione di Aydin Esen, un pianista turco cresciuto a New York, tra i più grandi cats (gergo musicale per definire i migliori musicisti al mondo), grande amico di McCoy Tyner. I suoi sono stati consigli fondamentali.
Che influenza pensi abbia la musica nelle altre arti? Se ti dicessi che anche un quadro è musica, che anche una pagina di romanzo è musica saresti d’accordo? Come mai?
Credo che ogni arte sia influenzata e influenzi le altre arti. Vedo l’arte in generale come un calderone unico, in cui sono possibili più fusioni. Se parliamo di arti visive, la musica ha una grande influenza, pensiamo al cinema, o alla fotografia e alla pittura. Allo stesso modo le arti visive influenzano la musica a loro volta. La musica è una forma d’arte sonora. Un quadro, una pagina di romanzo non emettono suoni, è vero, ma sono tutte espressioni che nell’astratto colgono la stessa sfumatura dell’istinto.
Se avessi la possibilità di riscrivere un brano che ha fatto la storia del jazz, quale sceglieresti? Perché?
Blue in green, di Miles Davis. Ha un livello armonico incredibile; segue un giro ciclico che sembra non marcarne mai la fine. In quasi tutti i brani alla fine di un giro armonico è possibile capire quando finisce. In questo brano c’è una strada che continua infinita, non si chiude mai. Appartiene all’album Kind of blue, il disco che ha marcato il linguaggio del jazz moderno.
Ci terrei a fare un’ultima precisazione: nel jazz sono le registrazioni che contano, non il brano in sé. Ogni brano è come se avesse delle linee guida da seguire, ma il musicista è libero di trattarle come vuole, inserendo improvvisazioni che il jazz, più di qualsiasi altro genere, permette.
