Solo le cose possono dirti chi sei
In "Locus desperatus" torna il feticismo ironico di Michele Mari

di TESSA MARINI

Immaginate di trovare, un giorno, una croce misteriosa sulla porta di casa vostra, che ostinatamente ricompare nonostante i numerosi sforzi per cancellarla. Ora figuratevi di incontrare, poco tempo dopo, un personaggio inquietante che vi intima di abbandonare la vostra abitazione, separandovi da tutti gli oggetti ai quali siete profondamente legati, affinché possa subentrarvi. Una prospettiva senza dubbio spaventosa, ed è proprio questo l’intreccio in cui si trova intrappolato il protagonista di Locus desperatus, il nuovo libro di Michele Mari. Determinato a resistere, questo personaggio lotterà ricorrendo agli stratagemmi più diversi e bislacchi affinché il preannunciato subentro non avvenga e i suoi oggetti, nei quali egli ha «sistematicamente trasferito ogni sua più intima particola», non si separino da lui. Quella di Locus desperatus è una trama che immerge il lettore in una realtà apparentemente ordinaria, ma che rapidamente scivola in un universo distorto, dove il paranormale e il mostruoso si intrecciano con elementi mitologici e fiabeschi, dove gli oggetti parlano e vuoti doppelgänger sostituiscono le persone. Un mondo in cui si sente il bisogno di «aggrapparsi alle cose che sole possono dirti chi sei».

Se da una parte l’ambientazione sospesa tra l’horror e il fantascientifico rende la narrazione disturbante, dall’altra Michele Mari riesce a sdrammatizzare la lettura grazie a un lessico e a una lingua volutamente ultraletterari e arcaicizzanti. Questo approccio, infatti, riflette la raffinata cultura del protagonista, e allo stesso modo instilla nel racconto un effetto alquanto comico. Emblematici sono i contrasti linguistici e di registro che punteggiano il testo: da frasi solenni come «non potevo sfuggire alla domanda che mi rintronava in capo siccome tempesta», si passa, a distanza di poche righe, a espressioni nettamente più prosaiche, come «sulla porta dell’interno 7, in basso a destra, un piccolo cazzillo, in puro stile da cesso pubblico». Talvolta, fanno capolino persino incursioni linguistiche da fumetto (passione dichiarata dallo stesso protagonista): dall’onomatopea «mumble mumble» che scandisce momenti di riflessione, ad esclamazioni come «Ahi lasso! Me tapino me morto» – che pur richiamando la tradizione stilnovistica italiana, sembra strizzare l’occhio anche al proverbiale “Me misero! Me tapino” di Zio Paperone. Come se lo sdoppiamento che vive il protagonista si riflettesse anche nel suo modo di parlare. 

A rendere la lettura ancora più coinvolgente contribuisce la densa intelaiatura di citazioni e richiami, che spazia dai capolavori del canone letterario, passando per alcuni celebri dipinti fino ad evocare i più noti cult del cinema. I lettori più accorti noteranno tuttavia che l’aspetto allucinatorio della scrittura di Mari fa silenziosamente capolino anche in questo intreccio citazionistico – all’apparenza preciso e coerente – poiché viene menzionata anche un’opera che non esiste: il fantomatico «Dornival», oggetto della conferenza di un filologo romanzo al quale assiste il protagonista. Ad ogni modo, citando versi di Foscolo e opere di Kafka, film di Stanley Kubrick e di Steven Spielberg, Michele Mari si accattiva il pubblico cinofilo e bibliofilo inducendolo, consciamente o meno, a soffermarsi su questi riferimenti. D’altro canto, l’esuberante citazionismo di Locus desperatus sembra quasi voler punire quei lettori che di romanzi classici e di cinema sono meno esperti. A mio avviso, però, la paura di non cogliere tutti i riferimenti non dovrebbe scoraggiare la lettura del racconto di Mari: il fascino della sua narrazione potrebbe invogliare qualcuno a ripescare da un vecchio scaffale la Gerusalemme Liberata o una raccolta di poesie di Gozzano. 

In un romanzo che si legge tutto d’un fiato, l’identità del protagonista – e forse anche la nostra – viene messa in discussione, in un viaggio tra sdoppiamento e alienazione, solitudine e abbandono, razionalità e inconscio. Temi che, affrontati con tono velatamente ludico da Michele Mari, assumono in Locus desperatus una forza straniante e al tempo stesso ammaliante, capace di toccare nel profondo e rievocare sensazioni e ricordi che credevamo perduti per sempre.