Yves Klein e Arman: «un idillio tra due artisti che pur essendo lontani sono sempre stati molto vicini»
Giancarlo Olgiati, asseggiando tra seducenti monocromi e ossessive accumulazioni, racconta la mostra a Lugano

Collezione Giancarlo e Danna Olgiati a Lugano. A sinistra: Portrait relief di Arman realizzato da Yves Klein. Al centro: gigantografia di Yves Klein. Crediti fotografici: Vittoria Prati.

di TESSA MARINI

A partire dalla «folgorante» – così l’ha definita Giancarlo Olgiati – scoperta dei Nouveaux réalistes avvenuta nei primi anni Sessanta presso una galleria d’arte a Düsseldorf, il collezionista ticinese ha stretto nel corso del tempo delle feconde amicizie con alcuni esponenti del gruppo. Percorrendo con noi la mostra Yves Klein e Arman : le vide et le plein esposta alla Collezione Olgiati di Lugano, Olgiati ci ha parlato del rapporto che legava i due artisti da un punto di vista raro, quello di testimone dei racconti di Arman, di cui è stato avvocato per venticinque anni. «Sotto alcuni aspetti li separava una distanza notevole – spiega Olgiati – ma al contempo erano vicinissimi perché erano amici, amici per la pelle, legati dal judo e dalla filosofia zen».

Da un punto di vista artistico, «Klein rappresentava il sacro, la spiritualità, il cielo di Giotto, di cui era innamorato. Anche se – ci confessa il collezionista – le stelle gli davano un po’ fastidio, lui voleva il blu e basta». Un colore talmente amato e utilizzato dall’artista da portarlo a brevettare l’International Klein Blue. Arman, dal canto suo, «rispondeva con un atteggiamento consumistico, accumulando oggetti. Aveva l’ossessione di riempire gli spazi». Il “vuoto” e il “pieno” del titolo della mostra assumono sotto questa luce maggiore pregnanza: «Le vide è la spiritualità; le plein è lo sproloquio dell’immondizia. Quando Klein, da ragazzo, aveva detto di voler conquistare il cielo e gli spazi infiniti, e Arman aveva detto di volere la terra e le sue ricchezze, loro si erano già divisi il mondo».

Occupandosi degli spazi dell’allestimento, Mario Botta è riuscito a tradurre in chiave architettonica la complementarità dei due artisti. «Botta – racconta Olgiati – interpretò questo rapporto tra sacro e profano, tra spiritualità e consumismo realizzando dieci cappelle absidali. Cinque dedicate a Klein e cinque ad Arman, in modo tale che questi diversi poli potessero colloquiare da molto vicino».

Attraversando la “navata” della mostra, Olgiati ci confida dei preziosi insegnamenti in materia di collezionismo. «Inizialmente ascoltavo molto e non parlavo mai, e cercavo di imparare. Solo dopo ho iniziato a comprare». È in questo modo che ha potuto comprendere che «per avere successo devi capire che il capolavoro non ti aspetta. O lo prendi, o non lo vedrai mai più». D’altro canto, non bisogna dimenticare che «la collezione ha senso se tu spingi in alto l’asticella: la qualità deve essere sempre alta. Quindi – aggiunge ridendo – guai a seguire il mal di pancia! Per un collezionista il mal di pancia è il senso del possesso. Io tutte le sere, a casa mia, prima di andare a letto mi siedo davanti alle opere e le guardo. Perché l’opera quando è bella, quando canta, ti suggerisce sempre qualcosa di nuovo e ti conquista ogni giorno. Quello del collezionista è quindi un colloquio molto più diretto, più intimo, più poetico con l’opera d’arte di quanto possa risultare quello di un appassionato d’arte che non condivida questo senso del possesso».

Un legame così profondo con l’opera d’arte rischia però di sfociare in acquisti impulsivi. «Sono fortunato ad avere vicino mia moglie che è gallerista: lei, che i mal di pancia non li ha, riesce a tenere sempre alta la qualità della nostra collezione».

Giungendo in prossimità delle ultime due cappelle, sulla sinistra è presente l’ultima espressione artistica di Klein, che lo condusse alla morte nel 1962. L’artista impiegò infatti del fuoco e del gas, rinunciando ad una maschera di protezione per ottenere maggiore efficacia. In questo modo si avvelenò e morì pochi giorni dopo di infarto. «La cosa più interessante, qui – racconta Olgiati – è l’audacia, la precisione e la poesia con la quale Klein ha realizzato l’ultima opera della sua vita. Prima, con i monocromi, lui aveva scomposto i colori del fuoco; dopo, qui, è riuscito a rappresentare il fuoco stesso». Nello spazio tra le ultime cappelle dei due artisti, al centro, è esposto un violino bruciato, realizzato da Arman. «In questo simbolo, le loro diversissime figure si ritrovano. Perché entrambi hanno capito di avere il diritto di creare l’opera, ma anche di distruggerla. Questa è la fine di un idillio tra due artisti che pur essendo lontani sono sempre stati molto vicini».