Anton Jablokov: il violino tra tradizione e innovazione. Un viaggio musicale in continua evoluzione
Proveniente da una famiglia di musicisti, partendo dalla musica classica ha saputo creare uno stile personale

di MAGDALENA PREDRAGOVIC

Anton Jablokov, proveniente da una famiglia di musicisti di lunga data, è un giovane violinista professionista. Partendo dalla musica classica ha saputo creare uno stile personale che mescola tradizione e innovazione, attraversando diversi generi. Si esibisce da solista, in duo o con gruppi, conquistando il pubblico in tutta Europa.

Nasci a Bratislava (Slovacchia), inizi a suonare il violino all’età di sei anni e a otto suoni con la famiglia in tour per l’Europa. Come è stato crescere in questo ambiente? Come sei stato iniziato alla musica? La scelta dello strumento è avvenuta in maniera naturale?
Tutto è stato quasi troppo naturale. Già a 3-4 anni desideravo iniziare a suonare, ma mio padre decise che avremmo aspettato fino ai 6-7 anni. Voleva che ci godessimo l’infanzia. Intanto facevo finta di suonare: avevamo un violino di legno senza corde e io lo usavo con bacchette cinesi. Devo ammettere però che non mi piaceva studiare: la disciplina dello studio non faceva per me. Un giorno mio padre mi disse: «Se non ti piace, non devi suonare». Così lasciai, salvo poi tornarci una settimana dopo.


La tua formazione è stata classica, ma i tuoi interessi si sono presto rivolti anche ad altro. Ci racconteresti questo momento di scoperta?
Avevo 10-11 anni quando mio padre mi regalò tre cd che mi colpirono molto. Uno era di musica barocca con Giuliano Carmignola, un altro di Roby Lakatos, violinista gitano ungherese. Il terzo era di Stéphane Grappelli, un violinista francese famoso per il Gypsy Jazz che suonava con Django Reinhardt. Li ascoltavo senza sosta e capii che il violino poteva essere suonato in modi molto diversi.


Tu e tuo fratello Vladimir (violinista) vi siete uniti come duo nel 2014 e da allora viaggiate l’Europa in tour. Come è nata l’idea?
Siamo stati complici sin da piccoli. A 10 e 14 anni cantavamo nel coro dei ragazzi a Vienna. Prima dei concerti, vedevamo dei musicisti di strada e un giorno abbiamo deciso di provare anche noi, lasciando il coro. Dopo una pausa, lui si è trasferito in Irlanda, dove organizzava concerti e ogni tanto mi chiamava a suonare. Lo criticavo per come parlava durante i concerti, dicendogli che io l’avrei fatto meglio. Lo convinsi allora a fare un concerto insieme e così è nata la nostra collaborazione.


Con Stefano Moccetti (chitarra) avete fondato il Duo Kirsch (2020), con il quale siete poi partiti in tour. Suoni anche con orchestre sinfoniche e orchestre da camera. In che modo collaborare ti arricchisce ?
Il mese scorso ho fatto nove concerti per una ditta e mi hanno chiesto lo stesso programma ogni volta. Ho dovuto formare cinque gruppi diversi. È stata un’esperienza davvero arricchente perché ogni violinista con cui ho suonato aveva un approccio diverso e ciascuno mi ha insegnato qualcosa di nuovo. Anche suonare con altri strumenti mi ha insegnato moltissimo. Suonando con Stefano ho imparato cose che non avevo mai considerato. Mi ha insegnato a non fissarmi su dettagli che per gli altri strumentisti non sono così importanti come per noi.


Come vivi invece i momenti in cui siete solo tu e il tuo strumento? Preferisci suonare da solo o in compagnia?
Suonare da solista mi piace molto: è come uno sport estremo. Improvvisare sul palco, per esempio, mi spaventa, ma lo adoro. È come scendere da una rapida discesa: alla fine sono sempre felice di essere sopravvissuto. Ogni concerto è come una droga, mi permette di vivere emozioni molto forti. Mi piace avere un certo controllo sulla musica che suono, e quando suoni con tanti musicisti devi adattarti. Questo può essere frustrante. Ecco perché preferisco i gruppi più piccoli.


Come vivi i concerti?
Ovviamente mi piacciono quelli in cui sono soddisfatto di come suono, cosa che non succede molto spesso. Mi influenzano molto i fattori esterni. Se gli altri musicisti suonano bene, anche io riesco a dare il mio meglio. Pure il pubblico ha un forte impatto su di me. Ogni città ne ha uno diverso. In Irlanda ci sono posti in cui il pubblico si mostra subito molto entusiasta e lì mi sento a mio agio. Ci sono però anche luoghi dove il pubblico è più riservato. In quei casi mi sento sempre molto teso e sento che la mia performance non è al massimo.


Ci racconteresti cosa succede nei momenti in cui componi?
La teoria musicale non è mai stata il mio forte, ma il mio orecchio assoluto mi ha sempre aiutato. Quando ho iniziato a comporre, mi sono affidato a quello. Le prime composizioni le ho create con il pianista con cui suono: all’inizio contribuivo poco, ma col tempo sono cresciuto. Con Stefano abbiamo scritto molte composizioni seguendo sempre lo stesso metodo: ci divertiamo, suoniamo e registriamo le idee che ci piacciono, senza scrivere nulla su carta. È un processo naturale e istintivo.


Hai mai avuto un periodo di blocco creativo?
Con Stefano i primi arrangiamenti sono venuti facilmente. Comporre qualcosa di più complesso, come una suite ticinese, è stato diverso: partendo da zero, abbiamo avuto difficoltà. Ma insistendo alla fine la composizione è riuscita molto bene. Ci sono momenti in cui tutto scorre e altri in cui serve pazienza per trovare l’ispirazione giusta.


Quali sono i tuoi progetti ?
C’è il tradizionale concerto di Natale con mio fratello a Dublino nella 3Arena, per cui sto preparando un brano particolarmente impegnativo, Carmen Fantasy di Sarasate. Un altro progetto che mi entusiasma è legato al tango e lo presenterò a Bellinzona. Poi torneremo a Dublino alla National Concert Hall, dove sarò accompagnato da musicisti straordinari.