Chiedi alla polvere e chiedi a te stesso
La poesia di Yari Bernasconi attraverso nuovi, e altri, "giorni di polvere"

Incontro Yari Bernasconi in una graziosa e moderna “Bäckerei” poco distante dalla stazione di Berna e a pochi passi dall’Università. Dopo qualche chiacchiera introduttiva, decido di partire con la questione che di più mi aveva intrigato. Le curiosità sono tante e il tempo stringe, meglio iniziare.

Partirei, se così si può dire, dall’inizio, ovvero dal titolo. La polvere è un elemento che compare molto spesso nella tua racconta, così come ad esempio l’immagine della strada. Che significato hanno per te?

Trovo curioso il fatto che tu metta insieme la strada e la polvere. Mi viene in mente un libro straordinario scritto da John Fante, Chiedi alla polvere, dove nella prefazione dell’autore in non ricordo più quale edizione egli conclude esclamando “chiedi alla polvere della strada!”. Questo titolo nasce se vuoi da una casualità: credo che un titolo o lo si trova immediatamente oppure risulta complicatissimo. Mi arrovellavo sul titolo della raccolta finché un giorno in automobile, senza apparente motivo, mia moglie mi propose di trovare qualcosa di inerente alla polvere. In quel momento mi sono accorto, nonostante sapessi già che fosse un motivo ricorrente, di come la polvere ritorni in tutte le sezioni ed in modo diverso. Riflettendo mi sono reso conto che è uno di quegli elementi che ci accompagnano sempre nella vita: rappresentano la parte nascosta e respinta dalla vita, quella di facciata, quella del cliché “strade pulite” per intenderci. Due mi sembra siano le polveri di cui mi interesso in questa raccolta: le polveri che distruggono, che spazzano via, le polveri della quarta sezione, della “montagna di fuoco” che sta a metà del libro per intenderci, che lascia dietro di sé soltanto cenere in quanto polvere ardente; inoltre, ed è evidente soprattutto nella prima parte della raccolta, la polvere intesa come residuo, ciò che resta della Storia (con la “s” maiuscola), che in un certo senso ha poi anche delle ripercussioni sulla storia con la “s” minuscola, e cioè sulla nostra storia, microscopica, di singoli individui.

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Nuovi giorni di polvere, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2015

Perché dunque proprio Nuovi giorni di polvere? E non semplicemente “Giorni di polvere”, o “Altri giorni di polvere” come scrivi nella chiusa della seconda prosa di montagna di fuoco?

Perché l’idea è quella di ragionare su questi residui, su queste materie, in senso propositivo però, cioè guardando al futuro. Capita di trovarsi tra delle macerie (anche in senso metaforico), capita di trovarsi con più niente in mano, ma serve a poco semplicemente registrare l’accaduto. Serve, ed è importante farlo, fare delle scelte, valutare l’accaduto come un possibile punto di partenza, prendersi le proprie responsabilità ed andare avanti. Credo poco nella “tabula rasa”, al famoso ricominciamo tutto da capo. Penso sia importante piuttosto accettare quello che ci sta attorno, anche quando non è prodotto da noi. Il titolo gioca un po’ su questo, in tono quasi ossimorico: la polvere porta con sé un’idea di vetusto, ma è anche qualcosa di ricorrente, che ritorna. I nuovi giorni dovrebbero invece essere qualcosa di evidentemente antitetico, perché la polvere, quell’elemento, di disturbo quasi, che si deposita negli anfratti più nascosti, è qualcosa con il quale dobbiamo convivere, e questo vale anche per il futuro e non solo per il passato.

E pensi che in qualche modo allora il tema della polvere possa collegarsi a quello del viaggio, altro tema centrale della raccolta? Penso alla sezione “Piccolo diario d’Irlanda”, il viaggio in Estonia di cui parli all’inizio del libro, ma anche semplicemente i viaggi in auto e in treno che racconti.

Come ho già detto precedentemente, in qualche modo sì: la strada e la polvere possono avere un significato anche nel mio libro. Ma credo che il viaggio apra anche una porta verso un altro tema. Il viaggio in quanto tale, o il viaggio simbolico inteso come viaggio della vita, non sono sicuro che mi interessi, anche se evidentemente è utile e interessante l’ambiguità che si crea; e una delle peculiarità del linguaggio poetico credo sia proprio quella di giocare tra l’ambiguità e il non detto, quindi ben venga che alcuni viaggi possano far pensare anche a qualcosa di più vasto o elevato. Riguardo al viaggio sono particolarmente interessato al tema di quella che mi piace chiamare la “geografia mobile”. Ho l’impressione, quando mi si domanda di situare un mio sentimento di appartenenza, di appartenere piuttosto a una geografia mobile, una geografia in movimento più che a un luogo in particolare. E non è polemica questa mia affermazione: vuoi perché per studio e per lavoro sono entrato in contatto con culture diverse, vuoi per la più facile mobilità al giorno d’oggi, sono molto convinto di questa mia idea. Nel libro in alcuni momenti ho cercato di tematizzare questa ambiguità dell’appartenenza: per esempio in “Conosci il mare” cerco di spiegare questa “nostalgia di seconda mano” per un luogo (Albisola Superiore, in provincia di Savona, Liguria, ndr.) dove non sono mai vissuto, ma dove mi sembra di avere un pezzetto di cuore; oppure in “Connemara” dove addirittura il luogo si fa vago e lo spazio descritto nel testo può essere un qualsiasi posto nel mondo, ma è un luogo dove per un certo momento mi sono sentito bene. Ed è questo in sostanza ciò che mi interessa: spiegare che esistono luoghi dove puoi stare tanto bene da sentirti quasi a casa, senza motivi legati ad un qualsiasi senso di appartenenza.

Mi parlavi di Liguria e mi sorge abbastanza istantaneo, parlando di poesia, il collegamento a Montale. Inoltre, i versi di Franco Fortini aprono la seconda sezione della raccolta. Quale è il suo rapporto con i poeti del secondo Novecento?

La domanda è più che lecita, ma ovviamente la mia risposta non può che essere, anche se involontariamente, tendenziosa (ride, ndr.), nel senso che mi verrebbe da elencarti tutti quegli autori che mi piacerebbe potessero essere in un modo o nell’altro, fonte di quanto ho scritto. Ti dico questo, un po’ scherzosamente, ma non con falsità perché è una domanda che spesso si pone, ma è anche una domanda alla quale chi scrive dà risposte quanto meno fantasiose o pseudo-erudite. Penso però che ci sia una serie di autori che agisce sotto traccia: gli studi universitari hanno fatto sì che accumulassi diverse letture, ma in generale sono un lettore molto disordinato. Riguardo agli autori, potrei dirtene alcuni che mi stanno a cuore, ma non saprei misurare quanto questi influiscano o no. Vero che Fortini ad un certo punto è stato per me una scoperta importante, non solo per ciò che ha scritto, ma anche per la condizione in cui si è ritrovato a causa del suo impegno politico.  Fortini credo sia, a differenza di altri, clamorosamente attuale oggi. Questo forse perché abbiamo sempre più tendenza a non prendere posizione o a nasconderci. Mi viene in mente la poesia Traducendo Brecht dove Fortini dice «Gli oppressi / sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli / parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso / credo di non sapere più di chi è la colpa.» e poi conclude con «La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.» Lo trovo un testo molto attuale: il fatto che sia sempre più importante non tanto decidere di chi sia la colpa, ma riuscire a capire quali siano le cose importanti su cui prendere posizione. Poi il fatto che gli oppressi siano tranquilli non mi sembra così lontano dalla realtà di oggi, soprattutto in occidente dove si è raggiunta una sorta di vivibilità che molto spesso ci addormenta, ci anestetizza.

Hai lavorato per molti anni anche su Giorgio Orelli. Questo credi abbia in qualche modo influito?

Non saprei. In ogni caso non ne sono sicuro, non lo riconosco. Non penso sia utile che sia io a rispondere a questo tipo di domanda, anche perché per prima cosa credo valga la regola che i libri sono molto più interessanti e ricchi dei loro autori, tranne rarissime eccezioni. Credo anche che il lettore debba fare da cassa di risonanza, riempire alcuni non detti, andare in direzioni diverse da quelle che intendeva l’autore, che è molto più interessante che ascoltare le chiacchiere pontificanti di alcuni autori. Personalmente non credo alla necessità di spiegare le proprie poesie: si possono dare elementi per spiegare genesi e composizione di un testo, ma credo debba rimanere una parte legata esclusivamente alla libertà del lettore. Tornando ad Orelli, lui stesso parlava delle potenzialità della lingua, di come le parole, i suoni portino i significati altrove, più in là ancora di dove voleva andare l’autore. E questa è una idea che ho cercato di fare anche mia. La letteratura e la poesia in particolare offrono un linguaggio diverso e inabituale rispetto ad altri linguaggi magari più diffusi. Rispetto a non so, il linguaggio giornalistico ad esempio, la poesia può risvegliare, stuzzicare sentimenti diversi rispetto a quelli che solitamente mettiamo in gioco, riuscendo anche a far riflettere in modo diverso.

Collegandomi a quanto dici sul ruolo del linguaggio poetico, credi che ci sia ancora spazio, nella società di oggi, per la figura del poeta “engagé”? Uno alla Fortini per intenderci, ma anche come tanti altri.

Credo che la figura in quanto tale non esista più. Ma resto dell’idea che il linguaggio letterario, e quindi anche quello di un poeta, sia in primo luogo un lavoro sulla realtà, un racconto della realtà. La realtà è anche attraversata dalla dimensione politica, quindi tendenzialmente chiunque lavori sulla realtà ad un certo punto tocca la dimensione politica impegnata. Raccontare la realtà attraverso la letteratura significa dimostrare che esistono anche diversi approcci a livello di linguaggio, diversi modi per capire o per interrogarsi. Credo che la poesia possa risvegliare sentimenti diversi da quelli puramente razionali che entrano in gioco quando si ha a che fare con dell’informazione fattuale. Il compito della letteratura è anche quello di ricordare che il mondo non poggia solo su formalità razionali. Quindi in un certo senso mi verrebbe da dirti che sì, chi scrive può avere un ruolo, può dare qualcosa di diverso perché il suo sguardo da portare sulla realtà è diverso. Il fatto che questo sguardo a volte possa sembrare ambiguo, oscuro, misterioso magari, non è assolutamente un difetto. Il difetto è semmai credere che esistano risposte semplici, o è nero o è bianco per intenderci. E la semplificazione, anche a livello di linguaggi e nella letteratura per così dire d’intrattenimento è preoccupante, perché spinge verso degli approcci superficiali, portando le persone a non porsi più domande giuste, una cosa molto importante e anche filosoficamente più interessante. E anche questo si collega con quanto detto sulla polvere: bisogna domandarsi, in maniera critica, cosa fare con questi residui, porsi le giuste domande e ripartire.

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Yari Bernasconi © Yvonne Böhler (www.viceversaletteratura.ch)

Torniamo al libro: parlavi prima di spiegare genesi e composizione dei testi. Cosa ci puoi dire riguardo la tua raccolta, senza però guastarne la scoperta ai lettori?

L’ho immaginato, ma non significa che sia riuscito, come libro, dunque non come una semplice raccolta di miei versi ripresi e assemblati. C’è quindi una certa cronologia che rappresenta un percorso di esperienze, una sorta di proposta di percorso. Qui chiaramente è rappresentato quello che è il mio di cammino. Ma non è il fatto che si tratti del mio di percorso che lo rende interessante, bensì il fatto che posso immaginare che altri abbiano avuto sentieri simili ai miei. Il libro è sostanzialmente diviso in due parti, con questa “montagna di fuoco” di cui ti parlavo già in precedenza a fare da divisione, a rappresentare questa sorta di ripartenza dai residui, da una situazione di desolazione e di macerie, con le parole «in attesa delle foglie o di altri giorni di polvere» che concludono questa sezione a suggellare appunto questa idea.

Tutto ha inizio, anche cronologicamente con “Lettera da Dejevo”, ed è un momento molto importante perché è dove ho capito che il linguaggio della poesia poteva essere un modo di raccontare la realtà in maniera alternativa. Complementare se vuoi, ma diverso. E per questa sua importanza, prossimamente verranno pubblicate cinque poesie dedicate ad un “Ritorno a Dejevo”. Vi è poi la sezione dedicata al progetto “Kinder der Langstrasse” che rappresenta un po’ l’apice di un momento dove sentivo di dover prendere posizione, esprimere un giudizio. Dopo la montagna di fuoco, e non è un caso, segue un tentativo invece di fare poesia un po’ più intima. Da qui l’idea del diario, ispirato in parte dal Diario d’Irlanda di Heinrich Böll, non tanto nei testi, ma per la spinta datami verso questa idea. L’ultima sezione invece rappresenta le nuove consapevolezze. Il libro è un percorso di quasi un decennio, e dunque, come immagino succeda a tutti, non c’è niente di più ballerino che le consapevolezze, cose che ci sembrano ovvie ieri, oggi non lo sono più. In quest’ultima parte, più pacata, emergono in maniere forse più insistita i temi dell’andare, dell’identità. E, tornando alla tua domanda iniziale, anche riguardo all’idea di costruire il libro come percorso in qualche modo cronologico, trovo che il tema della polvere sia utile, perché attraversa tutto il libro.

Yari Bernasconi è nato in Ticino (a Lugano) nel 1982. Laureato in letteratura italiana all’Università di Friburgo, è autore di poesia e critico letterario ed è stato responsabile dell’edizione italiana di «Viceversa Letteratura» (sito web e volume pubblicato annualmente dalle Edizioni Casagrande di Bellinzona). Nel 2013 ha discusso la tesi di dottorato in letteratura italiana dedicata a “L’ora del tempo” (Milano, Mondadori, 1962) di Giorgio Orelli. Ha esordito nel 2009 con il libretto Lettere da Dejevo, edito da Alla chiara fonte, a cui sono seguite nel 2012 la silloge Non è vero che saremo perdonati, contenuta nell’Undicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea curato da Franco Buffoni (Marcos y Marcos) e nel 2012 la plaquette Da un luogo vacillante. Nel 2014 ha curato il volume postumo di Giorgio Orelli Quasi un abbecedario (Casagrande). Il suo ultimo libro, Nuovi giorni di polvere, pubblicato nel 2015, ha vinto il Premio Terra Nova 2016 della Fondazione Schiller e il Premio Castello di Villalta Poesia Giovani 2015. Le sue poesie sono apparse in diversi quotidiani e riviste, tra cui «Lo Straniero», «Cenobio» e «Le Courrier» (in traduzione francese). Attualmente risiede a Berna, dove lavora per l’Ufficio federale della cultura.