di RAFFAELE PEDRAZZINI
L’uomo dispone di uno strumento straordinario che comunica idee, convinzioni, emozioni agli altri ma soprattutto a sé stesso: la parola. Con questa è in grado di plasmare, modificare, alterare ma anche narrare fedelmente la realtà e la percezione di essa. L’intensità, il colore e la sfumatura che diamo al nostro atto comunicativo dipende anche dai nostri mezzi linguistici. Ne parliamo con la sociolinguista Vera Gheno che ha da poco pubblicato il suo ultimo saggio Potere alle parole: perché usarle meglio (Einaudi, 2019).
Vera Gheno, partiamo dal sottotitolo: perché usare meglio le parole?
Il titolo è sloganistico, quindi volevo un sottotitolo chiarificatore. In sé la tesi del libro dimostra che usare meglio le parole ha senso per ognuno di noi. Non è il classico trattato di lingua italiana, quanto piuttosto un programma politico per rinforzare la comprensione tra le persone. Questo migliora la qualità di vita di ognuno. La cassetta degli attrezzi raffigurata in copertina (del libro, ndr), invece, fa riferimento a una similitudine fatta da Tullio De Mauro. La lingua è come una cassetta degli attrezzi. Essa ci permette di costruire il mondo. Arriva con una dotazione standard e poi ci aggiungi un cacciavite, una brugola… e continua a crescere. E così funziona anche per la lingua: ogni giorno ci accorgiamo che ci serve qualcosa in più, da un nome ad un aggettivo, e così continuiamo ad aumentare il nostro bagaglio lessicale nonché linguistico.
“Ognuno di noi è le parole che sceglie”: come si costruisce questa nostra stessa essenza? E siccome la scelta presuppone uno scarto, come scegliamo?
La competenza linguistica non si forma solo in ambito scolastico ma dipende moltissimo dal milieu socioculturale e familiare da cui l’individuo proviene, nonché dai consumi mediali e culturali di cui fruisce. Anche ascoltare musica e prestare attenzione alle parole, leggere fumetti, essere patiti di uno scrittore leggero, avere a che fare con persone che parlano altre lingue struttura, in maniera più o meno esplicita, il nostro idioletto cioè la nostra identità linguistica.
Quest’atto di identità che ognuno di noi compie va a costituire il passaporto linguistico, che utilizziamo ogniqualvolta ci confrontiamo con gli altri. La grande sfida è passare da un’involontarietà degli atti alla sicurezza di potere scegliere la parola giusta per il contesto giusto. Non è una questione estetica ma di abito linguistico.
De Mauro diceva “siamo in grado di pensare solo ciò che sappiamo anche dire” e in un certo senso lo afferma anche lei nel suo saggio. Siccome oggigiorno il vocabolario dei giovani è vieppiù ristretto come possiamo far fronte alla semplificazione e alla semplicizzazione dei pensieri?
Innanzitutto, De Mauro lo afferma sulla scorta di Heidegger e di tutta una corrente filosofica che sostiene che non solo le parole danno forma al pensiero ma che lo formano nella sua interezza.
A mio parere, il lessico dei giovani d’oggi non è più povero di quello dei giovani di una volta. Sfatiamo questo luogo comune una volta per tutte. L’ottica in cui dobbiamo leggere la realtà attuale dev’essere diversa: nelle ultime generazioni c’è sicuramente stato un aumento del gap intergenerazionale da cui deriva per forza di cose una grande incomprensione. La difficoltà sta nel capire che l’intelligenza e la creatività dei ragazzi si è spostata verso altre forme di comunicazione e mediazione, quali, per esempio, il video. Oltretutto, non ci fermiamo ad ascoltare i ragazzi, per questo sembra che non abbiano più le parole.
Anzi, una cosa di cui noi sociolinguistici ci sorprendiamo sempre, è il livello attuale di uso della lingua, probabilmente impensabile fino a vent’anni fa. Una volta gli errori delle persone più giovani erano nelle scritte sui muri e nelle toilette pubbliche o comunque in contesti più stretti mentre oggi, per l’appunto, internet e relativi hanno agito da lente d’ingrandimento.
Qual è l’ampiezza lessicale per esprimersi con chiarezza?
Sempre ricollegandomi al pensiero di De Mauro e al suo vocabolario di base, circa il novanta per cento dei nostri discorsi quotidiani è composto da duemila parole (il cosiddetto “lessico fondamentale”). Statisticamente, il lessico minimo che ognuno di noi possiede è di settemila termini. Insomma, più ne hai meglio stai, e per questo non c’è una cifra: con più parole riusciamo a codificare meglio la complessità del mondo sia per noi stessi sia per coloro cui dobbiamo comunicarla. Rimanere senza parole è fonte di grandissima frustrazione, perché il concetto che girovaga nei nostri pensieri rimane senza forma: sia per noi sia per il nostro interlocutore. Ricordiamoci, però, che la lettura non è solo libri. Bisogna recuperare una sorta di curiosità linguistica nei confronti del mondo che ci circonda. Ci sono parole ovunque. Smettiamola, dunque, con il solito richiamo barboso ai libri per le generazioni successive.
Dovremmo assumere un atteggiamento difensivo nei confronti della nostra lingua o i neologismi fanno bene all’italiano?
La lingua italiana non va difesa, piuttosto, secondo me, curata e e usata meglio. Dobbiamo capire che ha un ruolo fondamentale nella definizione sociale. Per quanto riguarda i neologismi, teniamo presente che la lingua la fanno i parlanti e termini da altre lingue o nuovi costrutti sono semplicemente un segnale di vitalità. Lo scopo della lingua è di descrivere con precisione la realtà in cui essa è calata e, in fondo, nasce sempre la necessità di creare parole nuove o di importane da altre lingue. Pensiamo, per esempio, agli hikikomori. È un aspetto della nostra società che fino al momento dell’introduzione del termine nessuno aveva mai pensato di nominare. “Asociale”, la corrispondenza italiana del termine giapponese, non ha la stessa accezione, ecco perché servono i neologismi.
“A me mi” non si dice, il congiuntivo sta morendo, la doppia negazione afferma: dove sta l’equilibrio tra norma e uso?
Come sempre l’equilibrio sta a metà (ride, ndr). Il punto è che i grigi non piacciono a nessuno. Nel corso degli ultimi decenni andiamo verso la polarizzazione: o bianco o nero. O sì o no. O sbagliato o giusto. E si perdono le sfumature.
Le persone che escono da scuola e hanno studiato per anni e che non si occupano più di questioni linguistiche vivono con il pensiero che è stato consegnato loro un set predefinito di regole e che a queste non c’è nessuna deroga. Non è così, lo ribadisco. La lingua evolve, e noi con lei.
Prendiamo ad esempio l’uso del dialetto. È sbagliato? Assolutamente no, dipende dal contesto. Di certo, se sono a casa con i miei nonni lo parlo, se ho una riunione parlamentare no. Dobbiamo imparare a essere flessibili e ad assumere diverse identità linguistiche, ognuna che sia consona e pertinente all’ambiente e alle interazioni che abbiamo.
Perché aumentare la nostra conoscenza linguistica e quindi anche lessicale quando la società odierna stimola e amplifica una comunicazione legata alle immagini?
In generale l’immagine comunica più di mille parole ma è anche vero che l’immagine comunica, quasi sempre, in modo implicito. Se ci pensiamo, infatti, ognuno di noi può interpretare una foto come gli pare e piace. Non che questo non avvenga con le parole, ma con esse abbiamo la possibilità di calibrarne l’esplicitezza. Nessuno muore se leggiamo Ungaretti in modo diverso, o se qualcuno interpreta in modo diverso un quadro di Böcklin. Laddove richiesto, ad esempio nel testo di legge, che Francesco Sabatini chiama “rigido e massimamente esplicito”, ogni parola è tarata per significare una sola cosa. Non c’è un “non detto” o un’interpretazione ulteriore.
Tra l’altro, in questi giorni, col diffondersi dell’emergenza Covid-19, gli esempi sono tanti. Pensiamo ai “segni di comunicazione di crisi”: un’immagine inopportuna provoca enormi crisi di comunicazione. In quei casi è facile vedere come si ricorre alla mediazione attraverso le parole. Esse sono fondamentali per spuntare difficoltà perché se usate opportunamente — e per questo intendo scelte con cura — sono lo strumento più efficace della comunicazione.
Un altro ambito in cui le parole sono spesso sostitute è legato all’instant messaging dove l’immissione di emoji può cambiare l’interpretazione del testo che inviamo. Ciò non determina necessariamente un contenuto più chiaro. Anche in questo caso, bisogna saperne ponderare l’uso, altrimenti il cliché (delle emozioni, e non solo) è dietro l’angolo. Dosare, appunto, perché nel momento in cui esagero a usare emoji è come se eccedessi con l’uso di anglismi o burocratismi (che fino ad un certo punto possono essere utili per chiarificare la comunicazione) ma poi diventano un ingombro oppure un chiaro segnale di carenza linguistica.
In definitiva, le parole servono dunque a focalizzare con precisione il pensiero e questo non è sostituibile con le immagini.
John Searle diceva che “non è possibile pensare con chiarezza se non si è capaci di parlare e scrivere con chiarezza”: come impariamo la chiarezza di pensiero e la chiarezza nella scrittura, e viceversa?
Il punto di vista di John Searle è interessante perché ci porta a riflettere nella maniera opposta a quella con cui siamo abituati. Siccome il linguaggio struttura il nostro pensiero, se non abbiamo la competenze della parola, il nostro pensiero è di conseguenza disorganizzato e disordinato.
Ma andiamo con ordine. Federico Faloppa ha recentemente pubblicato un manuale, chiamato Brevi lezioni sul linguaggio (Bollati Boringhieri, 2019), che copre tutta la parte biologica di cui io mi sono occupata poco. Faloppa cita degli studi sull’evoluzionismo, imponendo delle riflessioni. La prima di queste è forse scontata ma fondamentale: siamo gli unici animali a possedere il potere della parola e il suo dominio. Pensiamo per esempio al cane, che ogni mattina, alla nostra partenza, subisce lo stesso trauma non potendo ricordare le centinaia di volte in cui ciò è accorso. Ovviamente in tutto questo c’è una parte d’istinto e di riflesso riconducibile a Pavlov ma la concezione del passato, del presente e del futuro sono l’essenza dell’uomo che, grazie alla parola, parla e scrive di ciò che non è immanente, ovvero di ciò che è passato — la storia — o di ciò che è futuro. Ed è proprio così che sembra sia nato il linguaggio: la lingua è nata dal gossip, ovvero dal desiderio di parlare di qualcosa e qualcuno che non è presente.
Volontà di silenzio come volontà di riflessione. Qual è il senso del “tacere”, del rimanere in silenzio, con cui si congeda nelle ultime pagine del suo libro?
È molto semplice: preferisco il silenzio al parlare a vanvera. Se non si ha nulla di intelligente da dire, se non si è competenti su un argomento, stiamo zitti. È una sorta di igiene delle comunicazione.
Per vederla con una similitudine, l’evoluzione ha dato una Ferrari della comunicazione ad ogni persona. Ma non ne ha dato le istruzioni per l’utilizzo e quindi la gente tira sotto le persone e si schianta contro i muri. Capiamo, prima di tutto, dove vogliamo andare e poi spostiamoci prudentemente, altrimenti il rischio è di muoversi a caso.
In questi particolari giorni, in Italia, molte persone hanno un vero e proprio problema col silenzio attorno a sé. Come mai rimanere soli con i propri pensieri ci atterrisce? Condividere a raffica cose stupide su WhatsApp pur di non stare con sé stessi sembra ormai la prassi. Il silenzio non è vuoto, il silenzio è pieno di significato: sono quei momenti in cui ascoltiamo noi stessi, senza per forza relazionarsi con l’altro che portano all’introspezione, alla riflessione e alla ponderazione dei nostri atti.
La parola, quindi, come atto di identità silenzioso. È lecito chiedersi: “chi sono io?” e ascoltare la risposta. C’è ormai una scarsa abitudine a riflettere alle parole che abbiamo dentro. Questa situazione si è venuta anche a creare per la smania di protagonismo di ognuno: tutti vorremo sentirci i protagonisti di un film apocalittico. L’egoriferirsi (in questa società già di per sé egotica) soprattutto presente nelle ultime generazioni, non fa che aumentare il basso senso di apparenza alla società e quindi ecco che smettiamo di curare le nostre relazioni, in primis quella con noi stessi.
Lavoriamoci, invece, sulle nostre relazioni: sia nella realtà fisica che nella virtuale. Ormai, non esistono più confini netti (mi riferisco al concetto di “onlife”), prendiamoci la responsabilità per entrambe e non scindiamo i due presenti che corrono veloci su un binario. In questi giorni difficili per tutti, smettiamola di condividere castronerie che contribuiscono ad aumentare la palla di neve della disinformazione e delle paure, mettiamo la nostra razionalità e responsabilità di fronte al dilagare di paura e angoscia.
Raffaele Pedrazzini
Intervista realizzata a distanza durante il mese di aprile 2020.