Figurine d’oro, acciughe e piovre giganti
In "Il vecchio al mare" di Domenico Starnone si fondono finzione e realtà, passato e presente, ars e poiesis

di GUY ÉTIENNE RIVIER

Non sembra esserci nulla di epico nella vicenda di uno scrittore ottantaduenne seduto su una spiaggia di una cittadina marittima a fine stagione: nessuno scontro con il mare, nessuna caccia, nessun marlin da domare. Così la congiunzione di “Il Vecchio e il mare”, di Hemingwayana memoria, lascia spazio alla preposizione e diventa “Il Vecchio al Mare” (2024), ultima fatica – termine più che accurato, leggendolo – di Domenico Starnone: una variazione minima che tuttavia è semanticamente densa e che segna la distanza cronologica tra due concezioni del fare letteratura.

“Stavo andando in spiaggia, avevo dormito poco per il vento forte. Come si guasta facilmente il tempo e, col tempo, un ginocchio, la schiena, tutto”. Così debutta il romanzo: la prima persona soffre i malanni della vecchiaia; si trova in vacanza da solo in una non meglio definita località di mare ed osserva lo scorrere della vita provinciale, penetrando a poco a poco nel tessuto sociale della cittadina. È nella giovane Lu che l’autore cerca di innestare il ricordo di sua madre – e con esso, la sua infanzia, la gelosia del padre, la difficoltà di non essere un buon marito, i frammenti di tutta la sua vita – mentre realtà e finzione si mescolano sempre di più, così come passato e presente: “Tuttavia fingo che ora, almeno per qualche istante, la giovane donna in canoa – a pensarci è la prima volta che la vedo – sia proprio colei che mi metterà al mondo”.

Sin da l’incipit ciò che si legge, nel Vecchio al mare, è immediatamente commentato e riscritto, abbassato ad artificio stantio, mentre ciò che l’io vorrebbe veramente descrivere sfugge da tutte le parti, come la “figurina d’oro” intravista sulla spiaggia – Non un corpo, non una piroetta di polvere, non un guizzo di luce ma una presenza […] ho pensato: so esattamente cos’è, e forse ne conosco il nome anche se ancora non ce l’ha – che apre e chiude il romanzo. Sembrerebbe allora che l’oggetto del libro sia la scrittura stessa data al lettore nel suo farsi. E infatti, riprendendo alcune osservazioni da La letteratura circostante (2018) di Gianluigi Simonetti, una costante dell’opera di Starnone è proprio riaffermare la crisi dell’arte del narrare, e più in generale dell’arte come assoluto. Nel romanzo compaiono molti che hanno creduto nelle possibilità della Letteratura: Domenico legge I lavoratori del mare di Hugo, racconta delle sue letture giovanili (Mann, Proust, Musil, Kafka), cita Caproni. Ma non è come loro, la sua scrittura non riesce a saldarsi al reale: “Ho sbagliato tempo – scrivo –, ho sbagliato madre, ho sbagliato Rosa, ho sbagliato ombra. Il sistema delle somiglianze non sta funzionando, c’è un errore nel primo termine di paragone”  Anche i momenti più lirici e visionari – di viva bellezza – vengono “spenti” dal narratore stesso, abbassati a mediocre tecnica:

Vedo invece che la riva è una lunga collana di pezzi di metallo, un alternarsi di rena scura e frammenti d’argento che luccicano al sole. Entro in acqua fino alle ginocchia, vedo banchi fitti di acciughe che mi tagliano la strada […] è vita energica, veloce che mentre trascorre perde morte ai lati, frammenti della sua materia animata che imputridiscono al sole con l’apparenza dell’argento. Che incongrua similitudine è quella che accosta il brulichio degli esseri viventi al metallo, al ghiaccio, sì, non ci so più fare, forse non ci ho mai saputo fare

E nonostante questo autosvelamento continuo, questa esibita frustrazione per la scrittura, Starnone costruisce Il vecchio al mare come una sfera il cui centro è Lu: le vicende e i personaggi sono a lei legati e sovrapposti al passato familiare dell’autore. L’intelaiatura del romanzo, perciò, contraddice continuamente ciò che si legge, ossia la dichiarata impotenza del letterario, presentandosi come una calibrata architettura narrativa, studiatissima. Starnone dissemina, infatti, corrispondenze tra il proprio “romanzo” privato (la sua vita) e quello che abbiamo tra le mani, descrivendocene la stesura in fieri: sua madre Rosa si “innesta” in Lu, così come echeggia nel personaggio di Evelina e nella sua infedeltà a Silvestro, uomo ruffiano dotato per gli affari (È stato al seguito di quell’odore che, di colpo, lì nel negozio di Evelina, è apparsa Rosa,); l’io narrante si identifica pienamente con Niní, figlio di Lu (Niní è identico a me quando avevo sette anni e soffrivo molto). Ciò diventa chiarissimo nel finale, incentrato sulla caccia di Niní alla “piovra gigante”: Domenico ha infatti appoggiato la fantasia del bambino, dicendogli che le piovre giganti esistono davvero. Ed è proprio leggendo il finale – o, si potrebbe dire, il doppio finale – del Vecchio al mare che finzione e realtà, passato e presente, ars e poiesis si fondono completamente, mentre tutto il peso narrativo si scioglie gelidamente nelle ultime due pagine del romanzo.

Del Vecchio e il mare non sembra allora rimanere nulla in Starnone, se non il tentativo frustrato di ridare vita alla possibilità romanzesca di conoscere la realtà, di rimpolpare lo scheletro dilaniato del marlin di Hemingway, un tempo trofeo e testimonianza della capacità umana di affrontare e narrare il mondo.  

Domenico Starnone, Il vecchio al mare, Einaudi, Torino 2024, pagg. 128, euro 17.