Han Kang: l’autolesionismo come unica forma di sopravvivenza
Il peso della solitudine femminile al centro dei racconti di "Convalescenza"

di MAGDALENA PREDRAGOVIC

Convalescenza di Han Kang, Nobel per la Letteratura 2024, vede la sua prima pubblicazione italiana nel 2019 per Adelphi. Proprio l’assegnazione del premio ha riportato l’attenzione sulla produzione dell’autrice, permettendo di riscoprire questo testo. Il volume è composto da un dittico di racconti, Convalescenza e Il frutto della mia donna, scritti entrambi prima de La vegetariana e anticipatori delle sue tematiche principali. Solo ottantasei pagine, ma dal peso di un macigno. Una prosa tanto semplice, pulita e lineare quanto tagliente, disturbante e implacabile, che cela una voragine dentro cui il lettore lentamente sprofonda, con il rischio di non riemergere. Solitudine esistenziale, dolore psichico che diventa fisico, conflitto interiore e relazionale, resa alla vita: questi sono alcuni dei temi principali dell’opera, che con lucido distacco ritrae il malessere vissuto dalle protagoniste.


Nel primo dei racconti una giovane donna si confronta con la morte della sorella, che la spinge a fare i conti con sé stessa e la propria vita. Un presente desolato, in cui si muove quasi meccanicamente, sola e dimentica di una spensieratezza e vitalità che un tempo sembravano abitare il suo corpo. «Un giorno te lo chiedesti. Ti chiedesti che cosa fosse andato storto e dove. Ti chiedesti chi delle due fosse più fredda: tu o tua sorella»: un interrogativo che apre la strada a una miriade di altri, tutti dolorosi e privi di risposta, accompagnati da un rimorso impossibile da placare. Una mancanza di capacità di comunicare e di comprendere l’altro, che condanna entrambe alla solitudine e non trova soluzione nemmeno sul letto di morte: «Quando alla fine hai aperto la bocca tremante e hai provato a chiamarla: « »Onni”, era tutto finito». È così che tutto si rivela essere una «sciocchezza», dalla ferita alla caviglia sinistra, che la protagonista non ritiene necessario curare, fino all’esistenza intera. Un dolore interiore che chiede di essere placato attraverso quello fisico, l’autolesionismo come unica forma di sopravvivenza: «Batti le palpebre diverse volte e pensi che tutte queste sensazioni di dolore siano troppo deboli. Sottovoce preghi ripetutamente un dio, non importa quale, perché tu possa non guarire da ciò di cui soffri in questo istante; perché il suolo freddo possa diventare ancora più freddo, cosicché la tua faccia e il tuo corpo si ghiaccino completamente e tu non ti rialzi mai più». La narrazione in seconda persona, affidata a un narratore interno e autodiegetico che si fa anche onnisciente («Ancora non sai che…»), spoglia la protagonista di ogni autorità relegandola a una condizione di passività, con un destino ormai tracciato e un malessere senza possibilità di riscatto.


Il racconto che segue narra di una seconda giovane che per sottrarsi a un’esistenza opprimente si trasforma in una pianta, trovando in questa metamorfosi la libertà tanto agognata, ma a cui aveva dovuto presto rinunciare («Vivere e morire liberamente era il suo sogno sin da quando era bambina, aveva detto»). Un’altra vita soffocata da una quotidianità logorante in una città frenetica e sovrappopolata, dentro un appartamento dalle mura troppo strette. Qui la donna vive con il marito, principale narratore e testimone della sua trasformazione. Un altro rapporto fallito, segnato dall’incomunicabilità, in cui i due appaiono estranei l’uno all’altro: «Il viso che avevo di fronte mi parve quello di una sconosciuta. Un’estranea, quasi irreale; una sensazione inaspettata, dato che eravamo al nostro quarto anno di convivenza». Due solitudini che si sono incrociate lungo il cammino, senza tuttavia mai realmente incontrarsi. La sofferenza della donna si manifesta in lacrime mai versate prima e in un susseguirsi di malesseri fisici: i primi segnali di un disagio psicosomatico che culminerà nella metamorfosi. Un corpo che fiorisce, un’inquietudine che si placa: «Presto, lo so, perderò anche la capacità di pensare, ma sto bene. È da tanto tempo ormai che sognavo questo, poter vivere solo di vento, sole e acqua». Il dolore pare sublimato. Eppure, resta l’incertezza: «In primavera mia moglie avrebbe germogliato di nuovo? I suoi fiori sarebbero stati rossi? Non ne avevo la minima idea».


Attraverso le vicende di queste due donne, immerse in racconti senza tempo né luogo, Han Kang indaga l’alienazione femminile, il dolore che si annida nel corpo, la tensione verso una libertà impossibile e l’ineluttabile resa a una realtà oppressiva. Le protagoniste, destinate a una solitudine tanto temuta quanto inevitabile, incarnano dilemmi universali: il peso delle parole mai dette, l’incomunicabilità e il sogno infranto di un’esistenza diversa. Con una scrittura essenziale e penetrante, Han Kang ci mette di fronte al vuoto che pervade i rapporti e la vita stessa, costringendoci a fare i conti con la nostra solitudine.