di Federica Rossi
Professore della facoltà di lettere dell’Università di Losanna, direttore del Centro di ricerca sulla letteratura romanda e scrittore. Daniel Maggetti, originario delle Centovalli, nel 2007 ha ricevuto il 21. Prix Lipp Suisse per il romanzo Les Créatures du Bon Dieu (l’Aire, 2007).
Nel 2015 ha pubblicato La Veuve à l’Enfant (Zoé, 2015), un nuovo ro
manzo breve ambientato in una valle ticinese. Il racconto si svolge nel XIX secolo, attraverso il racconto di Don Tommaso Barbisio, un prete piemontese che caduto in disgrazia, si tr
asferisce in un piccolo aese della Svizzera italiana. Arrivato al villaggio, prende come serva una donna vedova, Anna Maria, che vive sola con il nipote. Il racconto, visto attraverso gli occhi del prete, mescola lingue e culture diverse, relazioni umane che si evolvono nel corso della narrazione, portando alla luce il passato misterioso e travagliato della vedova.
La Veuve à l’enfant, un romanzo che vede al suo interno sia finzione che verità, soprattutto nei personaggi.
Sì. Ci sono diversi personaggi. Quello del prete è d’invenzione, ma il nome appartiene ad un teologo Garbisio che arrivò in quella parrocchia… ma non ha nulla a che fare con il personaggio del romanzo! Mentre quello della vedova è un personaggio storico realmente esistito. Un po’ trafficato, sì, ma la maggior parte dei dati sono reali.
Quali sono state le fonti del suo lavoro?
M: Una delle fonti sono stati gli archivi dell’emigrazione verso l’Australia, ma non solo. Ci sono anche gli archivi dei processi penali, archivi di Stato… Ad esempio, tutta la parte legata alla storia del marito, su cui ho dovuto lavorare molto, arriva proprio dagli archivi di Stato.
Com’è nata l’idea di questo romanzo?
M: È una storia di cui avevo sentito parlare fin da quando ero bambino. Una di quelle che, poiché sono passate per una tradizione orale, non sono più né situate cronologicamente né fissate su personaggi facilmente identificabili. Ma ho sempre sentito raccontare la vicenda, chiaramente trasformata rispetto la realtà dei fatti, di un signore che aveva un’osteria, ed in questo luogo ci uccideva le persone. Ecco, la storia base. In più, a quanto pare, la leggenda era in relazione con la mia famiglia, quindi si è fatto tutto più interessante.
I: Come si è inoltrato nella ricerca archivistica?
M: Molti anni dopo mi tornò alla mente questa storia. Lì il via alla ricerca in archivio per cercare di stabilire di chi si trattasse… e sono arrivato all’incirca a stabilirlo. Inoltre avevo notato che negli archivi locali, parrocchiali o comunali, alcune delle storie leggendarie che si raccontavano erano comunque basate o ispirate a fatti autenticamente accaduti.
Questi fatti sono raccontati anche nel suo romanzo?
M: Certo. In particolare il racconto della suocera che venne uccisa in casa: è una storia realmente accaduta di cui trovai le tracce. Ma avevo anche domande a cui non riuscivo a dare una risposta: ad esempio la figura del padre che, con il figlio, scompariva dagli archivi… ma, nonostante ciò, volevo scrivere questa storia.
I: Quanto è durata la stesura?
M: Avevo già in parte raccontato questa storia in un libro sulle Centovalli, uscito in Ticino, ma non era completa poiché non avevo ancora tutte le informazioni. Questo romanzo lo iniziai circa dieci anni fa, o anche più… ma in modo completamente diverso. Ma non lo proseguii perché non mi convinceva. Ciononostante, la storia m’intrigava e continuando a pensarci, decisi di dover fare qualcosa: iniziai la ricerca archivistica.
Quindi la sua idea cambiò nel tempo.
Sì. Inizialmente volevo scrivere la storia del marito, il brigante. Ma nel momento in cui trovavo informazioni negli archivi decisi di cambiare e di mettere l’accento sul personaggio della donna, che avevo trovato negli archivi dell’emigrazione. La sua storia era una piccola nota quasi insignificante, ma che attirò immediatamente la mia attenzione. Da qui, il via a tutto il resto. In archivio trovai poi altre informazioni che mi permisero di essere preciso nel racconto di determinati fatti, come la storia del tenente ucciso. La cosa interessante fu che, finito il romanzo, continuai la ricerca negli archivi e mi accorsi che determinate conclusioni che trassi ipoteticamente, si rivelarono giuste.
Nelle sue ricerche sono emerse le emigrazioni svizzere di massa, avvenute nel XIX secolo, di cui oggi però non ci si ricorda. Era intenzionato a porre l’accento su questa inversione storica che viviamo oggigiorno?
Non è un caso. La dimenticanza storica è un fenomeno frequente e bisogna sempre stare attenti. Effettivamente, quando ci si addentra in questo settore, ci si accorge che tra epoche diverse non ci sono sostanziali differenze. Ma non dico nemmeno di averlo voluto esplicitamente. Penso semplicemente che il romanzo abbia, da questo punto di vista, un potenziale di attualizzazione della storia.
Il racconto è ambientato in una zona di confine: le Centovalli.
La frontiera che si vuole vedere è una specie di barriera, in realtà permeabilissima da molti punti di vista. Penso che essa sia stata istituita come una vera frontiera, come una rottura, alla fine dell’Ottocento. Quando ero ragazzo sembrava che andare in Italia significasse andare in un altro mondo, nonostante a separarci ci fossero soltanto cento metri! Consideriamo poi sia la pressione politica che quella economica, che nel corso degli anni hanno aumentato il divario tra i due paesi, sebbene di diverso ci sia ben poco.
Però lei, nel romanzo, ha inserito un personaggio italiano.
Sì, il prete. Ma non viene dal confine. Arriva da un Piemonte molto lontano. Lui incarna una certa forma di cultura, o civiltà, opposta a quella che si trova in questi paesini. Lui incarna lo sguardo esterno. Avrebbe potuto essere chiunque.
Ma è un prete. Quanto in questi paesi incide il credo religioso?
In un paese come quello che descrivo io, penso siano ben pochi i non religiosi. Il dominio della Chiesa era una cosa evidente, soprattutto in quell’epoca.
C’è un altro fattore importante nel suo libro: il fattore linguistico. Lei è ticinese, il racconto è ambientato in Ticino, ma è scritto in francese! Certo… con qualche termine dialettale.
Scrivo in francese perché è la lingua nella quale ho l’abitudine di scrivere. Il dialetto rientra nel racconto come un qualsiasi elemento linguistico. Il mondo linguistico è sempre stato polifonico! Quindi credo che scrivere in una lingua, liscia e unica, non corrisponda alla realtà. Perlomeno non corrisponde alla mia, poiché viviamo in un mondo in cui abbiamo continuamente interferenze linguistiche… sul bus o anche in testa…
Quanto incide il dialetto nella sua vita o nella scrittura?
Il dialetto, a parte il fatto che lo trovo espressivamente interessante, è la mia lingua madre. Non sono di lingua madre italiana: quella l’ho imparato a scuola, a casa ho sempre parlato in dialetto! Non me la sentirei mai di parlare con i miei fratelli in italiano.
Quindi si tratta di tradizione?
M: È più di una tradizione. È radicato. È la mia lingua base. Inoltre, per me è più importante dirsi che, perdendo il dialetto, si perde una possibilità espressiva particolare più che una tradizione. Nel mio libro, però, non m’interessa il dialetto come tale, ma come lingua espressiva particolare, sia dal punto di vista del vocabolario che delle sonorità. Il mio uso di esso è più che abitudine, è tecnica.
I termini dialettali, però, non sono tradotti in francese.
No, poiché la polifonia è una realtà svizzera. In più penso che ci siano termini non traducibili, siccome hanno una connotazione particolare. Si può dare un significato, ma non è propriamente la stessa cosa… dunque, tanto vale non tradurla! È come se leggessimo dei racconti seicenteschi francesi: in pochi riescono a capire tutte le parole. È la sensazione globale dell’impressione e del ritmo del testo che m’interessa, non tanto il senso delle singole parole.
Il libro verrà anche tradotto in italiano?
Sì, a breve verrà tradotto da Maurizia Balmelli per Armando Dadò Editore.
Quanto incide per lei la trasmissione di tradizioni tipiche della valle?
Per me non è tanto la trasmissione ad essere importante quanto la memoria. Bisogna essere realistici: se le tradizioni svaniscono, è perché la società non ha più le condizioni necessarie per permetterne la sopravvivenza. Inoltre non amo particolarmente il folklore.
Quindi come interpreta lei il concetto di memoria?
Memoria nel senso più storico del termine. L’importante è poter ricordare, poter inscrivere storicamente un fatto: in un certo momento, in un determinato luogo, si viveva in condizioni diverse e la sperimentazione del mondo era diversa. Ad esempio, la civiltà contadina di cui parlo nel libro è completamente sparita. Si tratta, inoltre, di una questione più personale: con questo mondo ho avuto un contatto estremamente ravvicinato, poiché ci sono nato. Raccontarne una parte, è più vicino ad una testimonianza che ad una volontà di trasmissione. Questo mi sembra più importante.
Federica Rossi