Di SARA CERICOLA
Le terre emerse (Einaudi 2009) è un’antologia di poesie del periodo 1985-2009: parte dall’opera Concessione all’inverno (Casagrande 1985) fino ad arrivare ad una serie di inediti. Qual è, se esiste, il filo tematico che attraversa queste opere?
Io non credo che ci sia un filo tematico particolare. Sono quel tipo di cose che i lettori e critici forse dicono più facilmente che l’autore. In quanto a me, mi sembra di praticare un tipo di scrittura della poesia che nasce, prima di tutto, dall’esperienza concreta. Nasce da ciò che uno ha davvero incontrato sul proprio cammino esistenziale: o come esperienza di vita o come memorie che risalgono da un’epoca anche molto lontana. Non si tratta quindi di una poesia costruita a tavolino, immaginaria e neanche di una poesia di tipo avanguardistico, sperimentale, che andava abbastanza di moda quando ho cominciato.
Questo tratto mi sembrò la costante che, dal primo libro a quello che sto facendo ancora adesso, non è sostanzialmente cambiato. Sono cambiati invece, di libro in libro, le ragioni biografiche-esistenziali che mi hanno spinto a scrivere.
In che periodo della sua vita sono state composte ed esiste un rapporto tra loro?
Per il primo libro, ovvero Concessione all’inverno (Casagrande 1985), non saprei esattamente cosa dire perché è nato quand’ero molto giovane e non ero così cosciente, forse, di quello che facevo.
Il secondo libro, Bocksten (Marcos y Marcos 1989), però sì invece, difatti possiede come grande tema quello della morte: la morte di mio padre che poi si è messa in relazione con un’immagine molto particolare, il “Bocksten Mannen”, cioè un uomo del medioevo trovato morto ammazzato all’inizio del novecento in una torbiera in Svezia. Non si sa molto più di questo. Ciò significa però che, in questo secondo libro, il tema è quello della riflessione sulla morte e sulla perdita di qualcuno.
Appena avevo finito di scrivere quest’opera, cioè alla fine degli anni ottanta, sono stato invitato da Fernando Bandini, poeta e professore universitario italiano, a fare una lettura a Ginevra. In quell’occasione, senza pensarci, ho detto una cosa che forse risponde un po’ a una parte della tua domanda: ho detto ridendo, poiché non sono religioso, che credevo di avere scritto il libro del padre, il libro del figlio e mi auguravo di scrivere quello dello spirito santo.
Concessione all’inverno l’ho scritto nella condizione di essere il figlio di qualcuno, di essere molto giovane e, in un certo senso, questo è il libro del padre. Il secondo libro è nato appunto dalla scomparsa di mio padre e, evidentemente, quella del figlio che si rende conto della situazione.
Quello che non avevo ancora scritto e che sarebbe stato quello dello spirito santo, non riuscivo neanche a immaginarlo. È saltato fuori qualche anno dopo, dall’incontro di due elementi importanti per me. Il primo è stato la nascita della mia prima figlia, Nina, che naturalmente ha cambiato un bel po’ di cose, in positivo. Improvvisamente è come se avessi visto il mondo a colori e non più solo in bianco e nero.
Parallelamente a questo, ho anche cominciato a studiare e tradurre Philippe Jaccottet, un grande autore molto diverso da me, e le due cose insieme hanno creato qualcosa di nuovo, cioè Le cose senza storia (Marcos y Marcos 1994), in cui appaiono delle figure infantili, lo sguardo dei bambini, ma appare anche un modo di guardare la vita in modo diverso da quello precedente.
Il quarto libro è Pietra sangue (Marcos y Marcos 1999). Il titolo è strano poiché questa “pietra sangue” deriva da una tecnica artigianale in uso nella ragione dei laghi del nord Italia e del Ticino, chiamata la “tecnica della scagliola” che io avevo studiato, da un punto di vista folkloristico e dialettologico, per la mia tesi di laurea. Questa tecnica, sostanzialmente, è la costruzione con materiali poveri di una cosa che assomiglia al marmo, ma non lo è. Alla fine di questo procedimento, che utilizza soprattutto la polvere di gesso e i colori, bisognava levigare la composizione che si è realizzata con sette pietre un po’ misteriose, l’ultima delle quali si chiamava appunto “pietra sangue”: credevamo di aver capito che si trattasse dell’ematite, che quando la strofini sul palmo della mano lascia un alone rossastro, da cui il nome. Questo per quanto riguarda la parte tecnica. Solo che, quando stavo scrivendo questo libro, non riuscivo a capire per quale ragione continuasse a venirmi in mente questa “tecnica della scagliola. Inizialmente pensavo che fosse legato al fatto che volevo scrivere delle poesie narrative sugli scagliolisti, ma non era così: mi tornava in mente la scagliola perché, nel prodotto finito di questa tecnica, ossia quando vedi un paliotto d’altare o un tavolino in scagliola, ti senti colpito da una potentissima opposizione, quella tra il fondo nero lucente e i disegni coloratissimi, di colori elementari come il rosso, il giallo, il verde e l’azzurro. Credevo di aver capito allora che questa opposizione di colori in realtà aveva a che vedere con qualcosa che stava capitando a me. In quel periodo, mentre scrivevo le poesie di Pietra sangue, erano successi due avvenimenti antitetici tra di loro: la nascita di un secondo figlio, Leo, e la morte orribile di un carissimo amico. Le due cose non riuscivano ad andare assieme e questo forse era il senso di questa contrapposizione cromatica.
Poi arriva Folla sommersa (Marcos y Marcos 2004). Questo è un libro pieno di cose, anche molto diverse fra loro, per questo motivo non è tematicamente riconoscibile. Un mio amico che lo aveva letto mi diceva “mi ricorda la casa dove abiti”. All’epoca abitavo in una casa con un lungo corridoio su cui si affacciavano varie stanze laterali e quindi questo libro è costruito un po’ nello stesso modo. Non c’è un filone tematico, ma l’atmosfera generale è forse legata ad una preoccupazione di ordine etico e politico che mi attraversava in quegli anni e che ha prodotto il titolo, Folla sommersa, che deve molto a questo mio amico che è un poeta di Ancona, Francesco Scarabicchi, e che, una volta, mi aveva raccontato di una sua ossessione. Eccellente nuotatore, nato e cresciuto sul mare tra Ancona e le spiagge più sud, una volta da ragazzo, stava nuotando a largo e improvvisamente gli è venuta in mente un’immagine: ha cominciato a pensare che giù, sul fondo del mare, ci stessero i soldati della prima guerra mondiale morti, ritti in piedi con la baionetta innestata sulla carabina. Questo episodio lo fece andare in panico a tal punto da quasi annegare. Da quel momento ha smesso di nuotare ed entra in acqua solo se è sicuro di toccare. Fa un po’ ridere la cosa, no?
Inoltre, in questo libro, si fa forte la dimensione del tempo e della storia. La storia che trascorre e che poi sparisce perché, nella poesia che dà il titolo al libro, si parla di questo fenomeno che è stato studiato da un grande storico: quanto dura nelle società umane, quella che gli storici chiamano “la memoria viva del mondo”, cioè la memoria che passa di bocca in bocca, di padre in figlio? I risultati di questi studi sono impressionanti: dura ottant’anni, poi scompare in tutti i tipi di civiltà umana, a meno che, naturalmente come accade a noi, si depositi nei libri. E allora c’era questa sensazione che la “folla sommersa” del mio amico, ossia i soldati della prima guerra mondiale, già fossero in procinto di scomparire definitivamente, come anche i ricordi e le esperienze della generazione di mio padre, e così via.
L’ultimo spazio di questa antologia dell’Einaudi è dedicata agli inediti. La collaborazione con questa casa editrice è nata in questo periodo un po’ per caso, ormai ero tranquillamente accasato alla Marcos y Marcos, in un’estate in cui ho incontrato Mauro Bersani, responsabile dell’Einaudi e vecchia conoscenza che risale agli studi a Pavia, che mi ha proposto di pubblicare qualcosa insieme. Da lì è nata dunque quest’idea di una auto-antologia che arriva fino a Folla sommersa, però aggiunge al suo interno anche qualche testo allora inedito, che sarebbe entrato nel libro successivo e si sarebbe chiamato Corpo stellare (Marcos y Marcos 2010).
Durante tutta la sua attività poetica quali sono stati, o sono tutt’ora, i modelli di riferimento a cui si è ispirato?
Sono molti, in parte modificati nel corso del tempo e certamente accresciuti anche perché il lavoro che faccio, non solo quello di scrittore ma anche quello a scuola, mi porta inevitabilmente a leggere molto. Quando mi chiedono quali sono gli autori importanti per me la difficoltà è quella distinguerli perché ho letto beh, quello che un insegnante di italiano per forza di cosa deve aver letto, e non solo di italiano perché molti sono autori stranieri. Negli anni liceali, il momento più significativo in cui mi sono formato, era certamente Montale che leggevo di più, insieme a Leopardi per i classici e, successivamente, a Dante. Nello stesso tempo, però, autori che mi avevano molto colpito mi portavano fuori dall’Italia, verso la Francia di Baudelaire e Rimbaud e poi c’è stato il primissimo poeta che ho davvero letto per i fatti miei e per ragioni un po’ strane, cioè il poeta inglese Dylan Thomas. L’ho letto perché ero un ragazzino, avevo sentito che Bob Dylan aveva scelto questo suo pseudonimo in onore a questo poeta. Siccome mi piaceva Bob Dylan, mi sono fiondato a cercare un suo libro (ride). In realtà quella lettura è stata importantissima per me.
Poi ne sono arrivati altri: per l’Italia, a parte i classici, Vittorio Sereni e Giorgio Orelli, compagni di strada con i quali ho avuto rapporti importanti di amicizia e, talvolta, anche di fraternità.
Altri italiani sono Francesco Scarabicchi, Frano Buffoni, Antonella Anedda e Umberto Fiori.
E poi, naturalmente, c’è stato il grande incontro con gli autori che ho tradotto e, in particolare, con Philippe Jaccottet. Lì faccio ancora fatica a capire come e quanto mi abbiano influenzato, soprattutto lui, in parte Yves Bonnefoy, un altro autore che ho tradotto in parte e studiato.
Cosa rappresenta per lei la poesia?
È una domanda a cui non sono sicuro di saper rispondere perché non è che rappresenti qualcosa di preciso, è quasi un modo di vivere al quale mi sono accostato tanto tempo fa quando, in fondo, ero solo un ragazzo e che ha accompagnato tutta la mia esistenza finora, con alti e bassi. C’è una frase che avevo letto in un diario di Jaccottet che diceva “scrivere non è così difficile, anzi, ciò che è complicato è vivere una vita in cui la scrittura abbia senso e trovi spazio”. Non starò a spiegare questa frase, ma certamente suggerisce che tra l’attività della scrittura poetica e l’orientamento della propria vita ci dev’essere un rapporto, altrimenti la poesia diventerebbe menzogna, un giochetto o retorica. Quindi la poesia credo rappresenti per me un’esperienza profonda alla quale finora non ho mai potuto rinunciare e che ha acquistato un posto molto importante, quasi predominante, nella mia vita profonda perché poi esiste una vita di superficie, naturalmente.
Vista la sua seconda professione, ossia quella di professore, questo ha un rapporto con l’attività di insegnamento?
Penso di sì, però penso anche che questo rapporto non si collochi nel punto dove sembrerebbe più ovvio trovarlo. Il rapporto non sta nel fatto che io insegno letteratura italiana e, allo stesso tempo, scrivo poesie in italiano. Certamente ha il suo peso e può darsi che il fatto di scrivere mi aiuti a spiegare qualche testo e che avere un po’ di notorietà come scrittore mi dia una specie di piccola autorevolezza, o prestigio, che facilita le cose con qualche studente, ma non è qui il punto.
Il punto è che tendo ad interpretare l’attività didattica come la costruzione di un rapporto profondo con l’allievo. La letteratura può diventare qualcosa di sensato, uno strumento importante, se stabilisce qualcosa di profondo nella sua vita. Non è un valore acquisito da conquistare ogni giorno in questo modo, ma se essa può far capire allo studente qual è la sua reale condizione profonda, il luogo interiore in cui la parola di Dante può avere una risonanza reale. Se le cose stanno così, allora tra questa attività e la scrittura c’è qualcosa in comune, che ha a che vedere con la speranza che quello che insegni possa scendere verticalmente, rivelando qualcosa a te.
A côté della sua attività poetica, troviamo quella dedicata alla traduzione e in particolare, il nome di Philippe Jaccottet. Come è nato l’incontro con questo autore?
L’inizio è stato, come spesso accade, un po’ casuale e risale a molti anni fa. Jaccottet non è stato il primo autore che ho provato a tradurre. Il primo è stato il suo quasi coetaneo, altro grandissimo poeta francese morto l’anno scorso, Yves Bonnefoy, di cui avevo tradotto poco, scrivendogli poi una lunga lettera che forse è andata persa o arrivata in un momento sbagliato. Fatto sta che non ho mai ricevuto risposta. La cosa non mi ha intristito o fatto arrabbiare, però certamente mi chiedo cosa sarebbe successo se lui mi avesse risposto. Circa nello stesso periodo è capitato che, un giorno a Bellinzona dopo scuola, allora era lì che insegnavo, ho incontrato casualmente Giorgio Orelli. Orelli era affascinante e, anche in un incontro casuale, aveva l’abitudine di tenerti lì impalato per un’oretta a raccontare cose di letteratura e quella volta si è messo a farmi una conferenza su un articolo critico secondo lui sbagliatissimo dedicato a una poesia di Jaccottet. Io lo ascoltavo, ma non ho avuto il coraggio di confessargli che non avevo mai letto niente di questo autore e che, addirittura, non sapevo nemmeno chi fosse, allora. E quindi ho fatto finta di ascoltarlo, annuendo nei momenti in cui bisognava annuire e vergognandomi molto. È da quel momento che ho deciso, tornando a casa, di mettermi a leggere Jaccottet. E così è stato: ho trovato due libri a Losanna e ho cominciato a leggerlo, rimanendo subito folgorato, e siccome era la fine degli anni ottanta e con degli amici stavamo creando una rivista letteraria in Ticino, IDRA, che voleva dedicare una grande parte alla traduzione, ho proposto Philippe Jaccottet. È cominciata così. Poi da cosa nasce cosa, l’Einaudi si è accorta di queste poesie e mi ha proposto di curare un’antologia. In seguito ho conosciuto Jaccottet e poi la cosa non è mai terminata, andando avanti fino ad oggi, dato che solo pochi anni fa è uscito il volume complessivo delle sue opere per la “Pléiade” che mi affidava, con spaventosa sorpresa, la sua prefazione.
Quindi, dalla fine degli anni ottanta fino a pochi anni fa Jaccottet e la traduzione più in generale sono stati una costante con una particolarità. Mi sono accorto che quando traduco non scrivo cose mie e viceversa, se sto scrivendo cose mie non traduco. Credo che la ragione sia che la traduzione, come oggi si ritiene abbastanza comunemente, è una forma di scrittura particolare, con le sue regole, ma è una forma di scrittura poetica e quindi non si può mescolare con un’altra, almeno per me.
E per quanto riguarda i problemi che deve affrontare un traduttore?
Qui si potrebbe parlarne per mesi, naturalmente (ride). I problemi sono evidenti, a tal punto che hanno spinto i critici e i teorici a sostenere che la traduzione è impossibile. Potrei sottoscrivere anche allegramente l’affermazione, certo che è impossibile. Solo che senza le traduzioni io non avrei letto Osip Mandel’stam, gli inglesi e parecchie altre cose. Quindi sarà anche impossibile, ma è necessaria. Questo crea già una sorta di ossimoro di partenza e cioè il fatto che debba fare qualcosa che non si può fare. In realtà poi forse si può fare, naturalmente dovendo affrontare, e non sempre superare, una serie impressionante di ostacoli. D’altra parte, però, uno dei maggiori traduttori e teorici della traduzione degli ultimi decenni, il francese Henri Meschonnic, torna sulla metafora più comune che accompagna la figura del traduttore come traghettatore, qualcuno che porta dalla riva all’altra di un fiume qualche cosa e che del resto è già insito nell’etimologia della parola “tradurre”, cioè “ducere” – condurre oltre. Secondo Meschonnic, la figura del traghettatore può essere associata a quella del traduttore, però cos’è che traghetta? Se sul traghetto del traduttore ci mettiamo solo, come spesso accade, i significati, il traghettatore starà trasportando dei cadaveri, dei significati morti. Se invece vuole traghettare delle figure vive, allora non basta traduttore i significati, ma bisogna fare la cosa più difficile: ricreare, in un’altra lingua, un ritmo, in un’accezione profonda e diversa da quella che noi comunemente utilizziamo, ciò che caratterizza il linguaggio della poesia e della letteratura. Il ritmo di Meschonnic non è semplicemente la metrica o ciò che sopravvive dopo la caduta di essa, quello che definiamo ritmo quantitativo ovvero un alternarsi di momenti deboli e forti, ma è qualcosa di molto più vasto che è ciò che tu senti di fronte a qualunque grande testo poetico: il fatto che tutto in quel testo, ogni elemento del linguaggio come i suoni, la sintassi e il ritmo vero e proprio, collabora creando una specie di grande musica. Il traduttore non la potrà riprodurre esattamente, ma deve sforzarsi di non dimenticare e di reinventare a modo suo. Naturalmente per fare questo le difficoltà sono gigantesche, non c’è dubbio.
Dopo le sue ultime pubblicazione, ovvero quelle legate alla traduzione e l’ultimo libro di poesie dal titolo Argéman (Marcos y Marcos 2014), ha qualche nuovo progetto?
In realtà, proprio per le ragioni che dicevo all’inizio, cioè per come cerco di interpretare e praticare la scrittura, non posso dire che ho un progetto, però sento che mi sto avvicinando, adagio adagio, a quello che forse potrebbe diventare un nuovo libro. Ho scritto in questi anni delle plaquettes che adesso sento che iniziano a mettersi insieme in qualcosa di più grande, di cui non sono ancora proprio sicuro. Per esempio, non sono ancora sicuro del titolo, ne ho alcuni che mi frullano in testa. Uno è un titolo molto forte che forse darebbe un po’ troppo la sensazione di avere a che fare con una poesia di tipo civile, che è sì una componente delle mie poesie, ma non è l’unica. Questo titolo sarebbe una scritta che ho visto su un muro a Lecce, pochi anni fa, e su cui ho scritto una poesia: “PASOLINI APPESO”. Scritta oggi e non quarant’anni fa, quindi enigmatica e misteriosa: per quale motivo questa scritta appare dopo quarant’anni dalla morte di Pasolini e si voleva davvero parlare di Pasolini o di un compagno che si chiamava Francesco Pasolini? Non lo sapremo mai, probabilmente.
L’altro titolo è molto diverso e meno esplicito. Potrebbero essere tre parole che sono un verso dantesco del purgatorio e che sarebbero “cenere, o terra”. Nel verso di Dante, rappresentano il colore grigiastro della veste che indossa un angelo del Purgatorio, ma, tolte da quel contesto, diventerebbero qualche cosa di un po’ vago che indica una tonalità cromatica, forse anche un’intonazione che mi sembra essere abbastanza presente in queste poesie.
Nulla però è ancora certo, c’è la possibilità che io cambi idea.
Fabio Pusterla nasce a Mendrisio il 3 maggio 1957. È un poeta, traduttore e critico letterario di lingua italiana. Si è laureato in lettere moderne all’Università di Pavia e, attualmente, è professore di italiano al Liceo Cantonale di Lugano 1 e all’Università della Svizzera italiana a Lugano. È autore di numerose opere, tra cui la più recente Argéman, pubblicata da Marcos y Marcos nel 2014. Ha curato l’edizione commentata dell’opera narrativa di Vittorio Imbriani e, recentemente, ha firmato la prefazione al volume della Bibliothèque de la Pléiade che raccoglie l’opera di Philippe Jaccottet, di cui è traduttore. Inoltre, dirige la collana poetica Le Ali dell’editore milanese Marcos y Marcos. Tra i principali riconoscimenti, il Premio Montale (1986), il Premio Schiller (1986, 2000, 2010), il Premio Dessì (2009); i Premi Prezzolini (1994), Lionello Fiumi (2007) e Achille Marazza (2008) per la traduzione letteraria; il Premio Gottfried Keller (2007), il Premio Svizzero di Letteratura (2013) e il Premio Napoli (2013) per l’insieme dell’opera. In quest’intervista, mi occuperò principalmente dell’opera Le terre emerse, un’antologia di poesie del periodo 1985-2009, pubblicata da Einaudi nel 2009; della sua esperienza di traduzione particolarmente legata a Philippe Jaccottet e della sua professione di insegnante. |