Fam’ vede’ i man’
Non trovando le parole per rispondere alla polizia che sospettava di lui, Fabio Pusterla ha iniziato a riflettere sul valore della poesia

di FEDERICO TALARICO

È una mattina soleggiata, di quelle che annunciano l’arrivo della primavera. Incontro il poeta e insegnante Fabio Pusterla nel parco di Villa Saroli a Lugano. Nonostante la giornata intensa mi ha concesso di intervistarlo durante il pranzo, nel pomeriggio sarà ospite all’inaugurazione della Casa della Letteratura. Ci dirigiamo dunque verso il Bar Flipper, dove dopo un toast e un bicchiere di vino bianco, Pusterla si accende un sigaretto ed è pronto a rispondermi.

Alla domanda riguardo alle esigenze che lo hanno portato alla scrittura poetica, mi risponde in tono amichevole, quasi confidenziale, ed esordisce con un’espressione che si usa a Bologna quando si è giù di morale e che ha sentito un paio di anni prima da una sua amica: «è caduta un po’ la catena». Il modo di dire gli ha portato alla mente un episodio, quando appena quindicenne era andato all’ospedale di Mendrisio, a trovare il padre malato molto gravemente.

Non è morto subito, è campato ancora dieci anni. Ma c’era un momento in cui sembrava non ci fossero prospettive.

Sulla strada di ritorno verso Chiasso, dove Pusterla abitava all’epoca, cade la catena al motorino; occorre dunque fermarsi e rimetterla a posto. Con le mani sporche, giunge quasi vicino a casa, ma un poliziotto lo ferma, a causa del suo «motorino un po’ da esaltato, col manubrio alto. […] Lo avevo truccato in tutti i modi».

Il tentativo di evitarlo viene frainteso dall’agente che lo insegue – pensando che stia scappando –, lo raggiunge e lo porta in centrale. Lo tengono sottochiave per diverso tempo e poi lo interrogano, «minacciosamente», chiedendogli per prima cosa la sua professione. Alla risposta «studente», segue immediatamente «fam’ vede’ i man’», le quali sono chiaramente tutte sporche di grasso e fanno dubitare della risposta precedente.

Questo episodio quasi banale ha fatto riflettere in seguito Pusterla: «perché non ho detto loro: “scusate, vengo dall’ospedale”»?

Si è risposto in due modi: «uno, perché erano dei “bastardi”; ma la seconda ragione è che non ero capace di dirglielo, non trovavo le parole».

Da una situazione del genere, come sicuramente da altre, Pusterla ha incontrato «la parola che la poesia ti offre per andare in profondità». Non è stato però leggendo poesia, si è avvicinato a questa indirettamente, grazie «a quello che allora mi affascinava, che era la musica».

Scoprendo che lo pseudonimo di Bob Dylan deriva da un poeta inglese di nome Dylan Thomas, Pusterla si affretta a comprare, «anzi a rubare, un libro di Dylan Thomas alla Migros, che è stato il primo che ho letto». Quella lettura «è stata una specie d’illuminazione»; è stato in quel momento che ha capito che sarebbe piaciuto scrivere».

Forse allora intuivo vagamente che leggendo proprio quelle poesie di Dylan Thomas, oppure un po’ dopo [quelle di] Baudelaire o Leopardi, […] mi veniva da dire: “Però, come sembra più grande l’esistenza detta così, rispetto a quella mediocre che è la nostra quotidiana!”. Questa sensazione di grandezza mi affascinava tantissimo.

La sensazione appena descritta gli richiama alla mente una citazione dalla lettera di Leopardi al padre del luglio 1819, inerente al suo tentativo di fuga. «Questa opposizione tra la miserabile grandezza bottegaia in cui vivevo e questa illusione di grandezza che il linguaggio artistico sembrava dare, mi ha affascinato proprio tanto».

Nel considerare la forza di una poesia nata per esigenze pseudo terapeutiche, gli ho chiesto quali fossero i destinatari dei suoi versi.

«Non credo di pensare a un destinatario, – risponde il mio interlocutore – è una parola un po’ troppo tecnica, jakobsoniana quasi. La poesia esce […] dagli schemi comunicativi». Quando scrive, più che a un anonimo destinatario Pusterla pensa a delle persone. Alcuni di questi individui che sente vicini mentre lavora – «da qualche parte nell’ombra» – non ci sono più. «Si può scrivere per i morti? Ma certo che si può. Non ci leggeranno mai naturalmente, se non nella nostra proiezione. Ma fanno parte di quel cerchio intimo di […] persone importanti che non ci sono più fisicamente ma dentro di te continuano ad esistere».

Allora il poeta non scrive per sé stesso; immagina sempre un interlocutore.

Sì, è vero, la scrittura non è solo un fatto solitario e basta, o solipsistico. C’è un orizzonte che non è però quello dei destinatari o peggio ancora del pubblico. Benché esistano dei destinatari, delle persone che comprano i libri ed evidentemente li leggono. Però non ne so nulla. […] Secondo me la poesia, una volta che è stata scritta è qui, chi la vuole la prende. Non credo ci siano lettori più ideali di altri.