di LÉA CONCONI
Giulia Fonti mi accoglie nel suo atelier ad Arzo. Questo spazio si presenta ai miei occhi come un luogo magico e misterioso, pieno di un’energia particolare che avvolge anche lei: emana un’aura enigmatica e allo stesso tempo di serenità che mi colpisce. Gli scaffali sono stipati delle sue opere delicate e alle pareti sono appesi alcuni pezzi della nuova serie LAMANTE. Anche questi lavori denotano quella particolare sensibilità che traspare dal modo in cui mi parla, in cui mi racconta, con dolcezza, delle sue opere più speciali, del suo maestro e del suo rapporto con la creatività: un mezzo per esorcizzare i demoni.
Quali sono le emozioni o le idee che più guidano il processo elaborativo di un’opera?
Io sono molto emotiva. Avendo avuto un’infanzia e un’adolescenza abbastanza forti, la mia creatività mi ha aiutata molto nell’elaborare la gioia estrema, il dolore estremo, fino alla violenza estrema, che ho vissuto. L’arte è stato un mezzo, non dico una terapia, ma un modo per esorcizzare, per darmi l’equilibrio che ho oggi. Se non avessi avuto questo canale non so dove sarei. La mia arte è come io sono. Possiedo ancora un’opera che ho fatto a 16 anni, terrificante, perché conseguente a un’esperienza di grande violenza e la guardo ancora. Da quell’opera a quelle più recenti ho raggiunto una serenità mia. Sicuramente assorbo anche elementi da persone che incontro e da situazioni che vivo. Tuttavia è sempre la natura la mia fonte principale di ispirazione. Stare in mezzo al verde è un bisogno profondo e mi carica tantissimo.
Quali sono i tuoi materiali preferiti e il tuo procedimento artistico?
Sono molto poliedrica. Mi piace sperimentare con quello che ho a disposizione e perciò mi piace anche un’arte povera. Ho iniziato da ragazza a fare dei lavori solo con un carboncino e usando molto il tratto. Poi da lì ho fatto tutto un percorso sperimentale: ho provato con i colori a olio, con i pastelli, ho fatto collage, lavorato con i tessuti. Oggi sono tornata a quello che è solo il tratto, utilizzando una china rigida, sono diventata molto più minimal. Ho due modi di lavorare: uno è molto meditativo, ho bisogno di grande calma per realizzare dei lavori molto introspettivi. Però c’è anche un altro momento che ha bisogno di un gesto molto veloce, rapido e impulsivo. In questa seconda fase chiaramente esce la forza, perché ci metto tutta me stessa. Un’opera quando nasce lo fa un po’ come una danza. È un dialogo con il foglio, con la tela, con un qualsiasi supporto che ho. È un’emozione dove però conta anche lo studio della tecnica, perché se tu non conosci la tecnica non hai la possibilità di realizzare quello che tu vuoi.
Identifichi in Edmund Piellmann il tuo maestro, in che modo lo è stato? Ti senti debitrice verso di lui a un livello teorico, emotivo o piuttosto tecnico?
Lui l’ho incontrato che avevo 15 anni e mi ha proposto di fargli da modella, cosa che io all’inizio ho rifiutato. L’ho rincontrato qualche mese dopo e abbiamo avuto una sana litigata. Io ero all’epoca una ragazza che vagava, senza casa. Lui mi ha invitata nel suo atelier, che a quei tempi era a Lugano Besso, e lì ho visto un mondo che mi ha affascinata tantissimo. Lui lavorava molto con la figura femminile, tant’è che gli ho fatto da modella per tantissimi anni e mi ha addirittura lasciato uno spazio dove poter vivere. Lì veramente ho assorbito la sua stessa passione per la figura, ma anche nel vedere il dettaglio di un volto. Era matto come tipo, ma andavamo d’accordissimo, è stato un po’ come un mio maestro, papà, amico, tutto no? E poi quando è mancato mi è mancato un grande personaggio a fianco.
Molto spesso la tua arte è gemellata con il sostantivo “erotismo”, che in qualche modo inevitabilmente traspare dalle sue opere, ti ritrovi in questa associazione?
Nelle mie opere penso ci sia erotismo e sensualità. Io cerco più la sensualità. L’erotismo è un’energia forte che fa parte dell’essere umano, della vita e guai a non viverlo! Però l’erotismo lo trovi ovunque, anche in un frutto. Mentre quello che a me da più gusto è la sensualità. Qualcosa che ti trasmetta i sensi, il tatto, l’olfatto.
È possibile rappresentare qualcosa di così “audace” nell’ambiente piuttosto ristretto del Ticino?
Ho sentito delle barriere in Ticino, soprattutto in quei luoghi che dovrebbero esporre le opere degli artisti. È un territorio abbastanza limitato, ristretto. Ad esempio in Germania le mie cose arrivano meglio, non c’è nessun giudizio. D’altronde io non ho nessun tabù. Il corpo umano è bello eppure faccio fatica ad esporlo in Ticino. Mi è già capitato che non volessero esporre le mie figure più erotiche.
Come è nata la tua ultima serie LAMANTE?
La serie LAMANTE si chiama così perché è colei che ama e con questa serie ho deciso di amarmi. È una serie arrivata in un momento in cui ero molto a terra, ero triste. Per cui mi sono detta che per superarlo dovevo usare i miei mezzi: l’arte. Ho iniziato con questa carta davanti, con l’acqua e questo gessetto di china e ho iniziato un dialogo tra me e quello che ero, facendo un percorso retrospettivo. Attraverso questa serie sono veramente rinata. Ogni tanto guardo queste opere e mi dico: dentro il dolore, la tristezza quanta dolcezza e bellezza ci possono essere! Basta saper trasformare le situazioni. Quindi s’intitola LAMANTE perché io mi sono amata e io le amo tantissimo queste opere. Guardandole ora, mi accorgo di essere tornata al tratto che facevo a sedici anni. Mi hanno dato tanta carica, me la danno ancora. Sono felice di questa mia continua rinascita, perché sono una persona apparentemente calma, ma dentro c’è tutta una tempesta e questo mi equilibra, è un modo per trovare il mio centro. In questa serie quello che sto facendo è togliere, in tutti i sensi. Mi accorgo che sto arrivando veramente ad avere meno strato, meno pesantezza. Sarà che anche io, forse, sono più leggera.