Metti la chimica nel cervello. Intervista a Lara Ricci
La giornalista scientifica del Sole-24ore parla di droghe e dipendenze

di Ivano Terzaghi

 

Lara Ricci collabora da 16 anni alla Domenica del Sole 24 Ore, dove per anni ha anche curato le pagine scientifiche del giovedì; in precedenza ha lavorato anche alla Rai e alla CNN di Atlanta (USA). È molto interessata di poesia, arte, musica, letteratura e scienza. La sua carriera di giornalista e divulgatrice scientifica è caratterizzata da molti successi: ha vinto il premio Voltolino per la divulgazione scientifica; il premio giornalistico Piero Piazzano; il premio per l’informazione ambientale Laiguelia e il premio nazionale di poesia Quasimodo.

Nel 2005 pubblica il libro Droghe e Dipendenze dove descrive e spiega il funzionamento il delle droghe sul cervello (dal cioccolato e il sesso fino al crack) e perché non riusciamo a fare a meno di certe sensazioni. Nel volume sono anche inserite due interessanti interviste a Andrea Muccioli e a suor Elvira Pertrozzi, i quali lavorano a contatto con tossicodipendenti, cercando di reinserirli nella società.

 

Cosa l’ha spinta a scrivere il suo libro Droghe e Dipendenze?

In realtà è stato un caso, in quegli anni stavano uscendo i primi studi di neuroscienza veramente interessanti per quanto riguardava il studio sul funzionamento del cervello. Cominciavamo a capire e spiegare concetti astratti come l’empatia o anche la dipendenza. Avevo quindi proposto a un collega che lavorava a una casa editrice di scrivere un libro sul cervello; avevo già un programma in mente quando questo mio collega mi chiama e mi dice “Lara, te la sentiresti di scrivere un libro sulle dipendenze anziché sul cervello?”. Sfortunatamente la persona che si sarebbe dovuta occupare di quel progetto si era ammalata; e seppure avevo solo due mesi di tempo per terminare il libro accettai la richiesta. Il funzionamento delle droghe sull’uomo e come si diventa dipendenti da sostanze e comportamenti erano comunque argomenti che hanno sempre affascinato, anche se al Sole 24 Ore non erano un temi che interessavano particolarmente.

 

Nel suo libro parla il modo molto appassionato del cervello e delle suo meccaniche, cosa è che la affascina di più di questa grande macchina?

Una aspetto molto interessante di questo tema secondo me è l’annoso dibattito chiamato “Mente e cervello”, che dura ormai da Cartesio. Una parte dice che “noi siamo il nostro cervello” e siamo fatti interamente da processi chimici e biologici e un’altra argomenta che c’è qualcosa di più, qualcosa di immateriale che non possiamo capire. Prima queste idee erano discusse solo su un livello filosofico, ora cominciamo a capire come il nostro cervello funziona veramente. Si inizia lentamente a comprendere come il pensiero o le emozioni possono emergere dalla materia grigia. Grazie a queste nuove scoperte ci si può porre domande come “cos’è la memoria? Cosa sono le emozioni? Come riesce il cervello a prevedere le cose?” oppure “Come una cosa grande come il mondo viene trasformata nel nostro cervello in molecole e soprattutto connessioni?”

 

Leggendo il suo libro e osservando la nostra società il modo di vedere alcune droghe e la loro accettazione sono cambiati in modo molto radicale in questo decennio, si pensi soltanto all’ascesa di Facebook e i sempre più presenti Smartphones per quanto riguarda la dipendenza da internet e la legalizzazione della cannabis a uso ricreativo nello stati americani del Washington e del Colorado. Lei cosa ne pensa?

Secondo me c’è un grosso problema di definizione quando si parla di dipendenze, ancora non riusciamo a catalogarle appieno su base biologica; in genere queste sono descritte attraverso dei sintomi. Si parla di dipendenza quando una sostanza o un comportamento ha un effetto negativo sulla tua vita, tanto da andare contro la tua volontà. Questo lo si può capire molto facilmente se si pensa che il concetto di dipendenza da internet era partito come uno scherzo di uno psichiatra americano. Per prendere in giro un manuale di psichiatria che parlava di questa dipendenza ma che non poteva dare definizioni biologiche, egli si divertì a riproporre la stessa teoria, non ottenendo il risultato che lui sperava. Infatti, tutti lo presero sul serio e se ne è cominciato a parlare veramente. Che un utilizzo eccessivo di internet possa avere un impatto distruttivo sulla vita o socialità è vero ma che si possa catalogare come dipendenza con relativa sindrome d’astinenza non lo so. Ai tempi del mio libro non vi era molta concordanza sull’argomento e non so se ci sono stati sviluppi. Si potrebbe andare a vedere il funzionamento del cervello in relazione a internet, come per esempio si è fatto con il gioco d’azzardo. Ovviamente l’accettazione o la condanna di qualcosa da parte della società fa più o meno il concetto di dipendenza, il che però non dovrebbe accadere.

 

Alcuni studi, per esempio lo studio “Rat Park” pubblicato nel 1981 da Bruce K. Alexander, suggeriscono che il legame tra sostanze e tossicodipendenza non sia spesso dovuto a fattori chimici ma piuttosto all’ambiente dove una persona è inserita. Citando Andrea Muccioli, da lei intervistato, il problema risiederebbe quindi “nella società che ci circonda, tutta fatta di apparenza, di materia e di luccichii insignificanti. I drogati […] sono giovani a cui tutto questo non è bastato. E hanno trovato nelle droghe una risposta. Sbagliata, distruttiva” (p. 209). Secondo lei, cosa si può osservare mettendo in rapporto questa osservazione ai recenti studi sul funzionamento del cervello?

Bisogna sempre tenere presente questa dualità tra genotipo e ambiente. Alcune persone sono più suscettibili alle dipendenze a livello biologico; per esempio gli asiatici generalmente non hanno un enzima per distruggere e assimilare rapidamente la molecola dell’alcol e quindi quando bevono si ubriacano più velocemente e in maniera più devastante. Dall’altra parte bisogna però sempre tenere in considerazione i fattori ambientali: dei traumi una persona ha vissuto, l’ambiente in cui vive e le persone che frequenta possono influenzare l’individuo.

 

Sta lavorando a qualche progetto di divulgazione scientifica al momento? O quale altri campi vorrebbe approfondire in un futuro?

L’anno scorso avevo voglia di scrivere un libro su l’epidemia di Ebola e avevo cominciato a raccogliere materiale. Qui, grazie a un po’ di esperienza nel campo, mi sono resa conto di come tutti noi siamo nelle mani di meccanismi incredibili. Gli organismi internazionali sono così distanti dalla popolazione e dai giornalisti, ma questa distanza non è colmata da un vero e proprio lavoro di inchiesta. Ho avuto un anno impegnativo e pesante; e quindi non sono riuscita a portare avanti progetto. Per fortuna l’Ebola non era così contagiosa come sembrava all’inizio e l’emergenza è rientrata, se lo fosse stato non so come ne saremmo potuti uscire; e sono comunque morte migliaia di persone inutilmente.

 

Bisogna ringraziare Medici senza frontiere che hanno lanciato l’attacco più duro all’ OMS (Organizzazione Modalità della Sanità ndr); se non fosse stato per loro non so quanti morti in più ci sarebbero stati. Per il momento ho quindi abbandonato il progetto ma se dovessi riprenderlo svilupperei un discorso più ampio e utilizzerei Ebola come un esempio. Lo farei per una questioni etica per migliorare un po’ la situazione: sono allibita da come Ebola e altre epidemie sono stati affrontati a livello internazionale. Tra le altre cose, basta pensare che il responsabile dell’OMS per la questione Ebola era un veterinario! Quando vedi le cose da vicino ti rendi veramente conto di cosa ci sta dietro. All’inizio non avrei mai messo in dubbio l’OMS, poi ho letto il curriculum dei responsabili; in quel momento mi sono resa conto che bisogna stare attenti con chi si ha a che fare e non dare per scontato che le cose siano fatte bene.

 

Dall’alto della sua esperienza, cosa consiglia agli studenti che vogliono intraprendere una carriera giornalistica e/o di divulgazione scientifica?

È importante avere una base, io ho scelto una formazione universitaria in scienze ambientali anche se ho sempre pensato di voler perseguire una carriera di giornalista scientifica proprio per questo motivo. Potrebbe sembrare strano ma per occuparti di ambiente o di scienza devi avere basi di matematica, fisica, biologia, etc. Quella formazione era perfetta per il percorso che volevo intraprendere: infatti è importante riuscire a capire i grandi meccanismi che sono alla base degli studi, anche senza arrivare al livello del ricercatore. Devi avere un ruolo attivo e non limitarti ad assorbire informazioni per capire gli studi e non ritrovarti in balia di quello che ti spiegano i ricercatori. Questo è possibile solo se hai conoscenze universitarie o sei un grandissimo e impegnato autodidatta. Anche se è possibile fare il giornalista scientifico senza specifiche competenze, una specializzazione serve a eseguire il lavoro nel migliore possibile. Insomma, bisogna sviluppare un senso critico verso il mondo scientifico.

 

Quando ho cominciato il mio percorso accademico mi sono detta che la passione per la letteratura e la cultura l’avrei coltivata nel mio tempo libero, mentre al contrario non mi vedevo a studiare su libri di matematica e fisica il sabato pomeriggio. In ogni caso non c’è un concetto di concreto sbarramento per chi abbia seguito un percorso umanistico, ho diversi colleghi che non sono formati in scienze che fanno comunque un eccellente lavoro. Ciò non toglie che la laurea in materie scientifiche rende il lavoro più facile.