Obbligare il lettore a mettersi in discussione.
Intervista a Massimo Gezzi, premio svizzero di letteratura 2015

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di Sara Artaria

Massimo Gezzi nasce a Sant’Elpidio a Mare, nelle Marche, nel 1976. Frequenta gli studi di lettere moderne e Bologna e di filologia moderna a Pavia. In seguito si trasferisce in Svizzera, inizialmente a Berna come assistente alla Cattedra di Letteratura Italiana e infine a Lugano, dove attualmente insegna presso il liceo cantonale di Lugano 1.
Ha pubblicato i libri di poesia “Il mare a destra” (Atelier 2004), “L’attimo dopo” (Sossella 2009) e la plaquette trilingue “In altre forme/En d’autres formes/In andere Formen”.
Per Mondadori ha curato l’edizione commentata del “Diario del ’71 e del ‘72” di Eugenio Montale e “Poesie 1975-2012” di Franco Buffoni. Ha vinto il Premio Metauro e Marazza Giovani e nel 2009, nel 2015 il Premio internazionale di poesia Carducci e il Premio svizzero di letteratura nel 2016 con il libro “Il numero dei vivi”.

Quando ha cominciato a scrivere poesie si immaginava di pubblicarle un giorno e di ricevere tali riconoscimenti?

Ho iniziato alle scuole elementari, non so neanche io perché. Ancora non conoscevo le poesie, ne avevo lette solo poche, però quelle che imparavo a scuola mi piacevano particolarmente.
Ho cominciato a scrivere in un quadernetto che facevo leggere alla mia maestra, era la mia unica lettrice di quegli anni: m’incoraggiava, mi diceva che scrivevo belle immagini, c’erano dei begli spunti, insomma m’incentivava ad andare avanti.
Dopo di che, a scuola in realtà ho smesso di scrivere poesie. Crescendo, quindi nell’adolescenza, ho fatto tutt’altro: facevo musica, non ci pensavo più. All’università invece è tornata questa esigenza, quindi piuttosto tardi: tra la fine del liceo e l’inizio dell’università. In quel periodo ho conosciuto delle persone che mi hanno aiutato a uscire un po’ dalla timidezza, perché quando si scrive, all’inizio, non si ha molta voglia di farsi leggere, si ha sempre il timore che facendo leggere le proprie cose qualcuno dica “ma insomma, così così…”.
Ho incontrato Antonio Santori, un poeta che poi è morto giovane, che mi ha incoraggiato molto a continuare e da lì è andata avanti pian piano; prima su una rivista, poi si è prospettata l’idea di un libro, abbiamo quindi fatto un libro e da lì è nato tutto. Però sicuramente all’inizio non avevo nessuna speranza di essere pubblicato. La mia era un’esigenza profonda che assecondavo, ma assolutamente non l’ambizione di pubblicare un libro.

Quale peso dà ai premi e ai riconoscimenti ricevuti negli ultimi anni, e in particolare al Premio svizzero di letteratura?

Dunque, ovviamente mentirei se dicessi che non mi importa nulla, sono molto felice. I premi danno un senso a quello che si fa, soprattutto quando si tratta di poesia, perché la poesia non è un’arte che ha riscontri nel pubblico come può essere per esempio per un romanzo che vende migliaia di copie. La poesia è un’arte un po’ “carbonara” diciamo, quindi quando c’è un riconoscimento dato da persone stimabili, sono molto felice. Tra l’altro ho vinto questo Premio svizzero di letteratura e ho vinto anche, pochi mesi prima, un premio particolare: ho dovuto leggere davanti a un pubblico alcune poesie, e il pubblico stesso ha votato e ha premiato le mie. Questo fa anche piacere perché si ha la speranza di scrivere qualcosa che serva anche agli altri. Quindi fa molto piacere ricevere premi, però alla poesia non servono a niente, nel senso che a volte si rischia di appagarsi ricevendo un premio, invece per quello che scrivo -o quello che dovrò scrivere se ce la farò mai- questi premi sono un incoraggiamento, un grande incoraggiamento ad andare avanti.

In seguito al successo dei suoi libri è prevista la pubblicazione di un nuovo titolo?

Sì, ho finito di scrivere da diverso tempo un poemetto su un poeta anarchico e pazzoide della fine dell’Ottocento che è nato nel mio stesso paese, nella mia stessa città di provenienza: io sono delle Marche, il mio paese si chiama Sant’Elpidio a Mare. Questo poeta è nato proprio lì. Solo che, essendo anarchico, tra l’altro anticlericale, e mezzo pazzo, ha vissuto una vita infernale, uscendo ed entrando da manicomi e prigioni di mezza Italia; è arrivato anche nel Canton Ticino a piedi. Siccome questo poeta ha pubblicato dei libri in vita, ma è piuttosto sconosciuto e sommerso giù, nelle Marche, ho deciso di dargli voce e ho scritto un poemetto facendolo parlare. Uscirà a settembre per Casagrande di Bellinzona questo poemetto che s’intitola Uno di nessuno. Storie di Giovanni Antonelli: è la sua vita raccontata da lui, da me naturalmente, ma da lui.

Ci sono alcuni autori in particolare ai quali si sente legato e dai quali prende ispirazione per scrivere?

Sì ce ne sono molti. Forse i primi, quelli che mi hanno un po’ instradato, che mi hanno incoraggiato -chiaramente indirettamente- a scrivere sono stati prima Leopardi e poi Montale; i miei amori anche liceali. Proprio quando andavo al liceo ho scoperto la grande poesia e questi grandissimi autori. Montale tra l’altro l’ho anche studiato, ho fatto un commento per l’edizione Mondadori. Poi tantissimi altri che ho conosciuto nel corso del tempo; negli ultimi anni mi sono molto appassionato alla poesia americana contemporanea, per esempio autori come Mark Strand, Elisabeth Bishop o anche autori russi, mi piace molto Brodskij, un polacco come Herbert, o altri. Insomma molti autori e poeti che si incontrano nel corso della vita. Dunque sì, ce ne sono molti, fin troppi.

Nei suoi libri c’è una forte componente autobiografica?

Sì e no. Nel senso che quando si scrive, almeno io, non sono capace di non partire dalla mia esperienza di vita, quindi non c’è dubbio che si parta dalla propria esperienza. Più che autobiografia parlerei proprio di esperienza, nel senso che basta anche vedere qualcosa: una scena, ascoltare una chiacchierata in treno e può scattare una riflessione in versi su questo. Quindi il punto di partenza è sempre l’esperienza personale, ma io poi cerco di staccarmene, o meglio, quando mi rileggo voglio che la mia poesia non riguardi me, perché un lettore che non mi conosce non ha nessuna voglia di sapere i fatti miei. Mi piacerebbe appunto che fosse una poesia che in qualche modo parlasse a tutti; cerco di distaccarmi dalle mie vicende biografiche, anche se è impossibile, perché appunto si parte da lì.

Ci sono persone –amici, colleghi o famigliari- alle quali sottomette la lettura delle sue opere prima che siano pubblicate?

Ce ne sono un paio: due amici, scrittori e poeti a loro volta, ai quali sottometto sempre i miei manoscritti prima di pubblicarli. Sono due persone tra l’altro piuttosto diverse l’una dall’altra, quindi questo mi garantisce che non c’è un solo sguardo; a volte quello che piace a uno, non piace all’altro. Uno è Fabio Pusterla che è un mio amico, poeta e collega -insegniamo entrambi al liceo di Lugano 1-, e l’altro si chiama Guido Mazzoni, è un mio amico, con il quale ho creato un sito web che si chiama Le parole e le cose, un sito che si occupa di letteratura, ma non solo, anche di politica, di scuola… di letteratura e realtà insomma. Ecco forse sono questi i miei due referenti principali, quelli ai quali mi viene da mandare un testo quando scrivo, ma non sempre lo faccio.

Insegna come docente di italiano in un liceo: quale ruolo ha per lei l’insegnamento?

Devo dire che l’esperienza dell’insegnamento mi ha profondamente cambiato, sia come persona sia come scrittore. Innanzitutto perché ti priva del tempo per scrivere, del tempo e delle energie. No, a parte le battute, avere di fronte cento studenti che chiedono da te una parola sensata, che ti chiedono sostanzialmente perché dovrebbero amare la letteratura, perché dovrebbero leggere, ti dà una grandissima responsabilità verso queste persone, e anche verso la poesia, verso la letteratura. Quindi, trovarsi di fronte questi ragazzi ha cambiato un po’ il mio punto di vista sul mondo. Prima ero molto più solitario, molto più autoreferenziale. Avevo una specie di filosofia di vita chiusa in sé, che funzionava e che non prevedeva molto la presenza degli altri. Con l’insegnamento questa filosofia si è sgretolata, perché bisogna rendere ragione a queste persone, quindi questo tema è entrato prepotentemente nella mia poesia e nella mia vita, e mi ha cambiato lo sguardo, tant’è che molte poesie, anche nuove, partono da esperienze di scuola, d’altronde a scuola passo metà della settimana e quindi metà del mio tempo intero. È un’esperienza che mi ha cambiato. Sicuramente ha cambiato i temi della mia scrittura, quello che sto scrivendo adesso per esempio molto spesso cita temi, osservazioni, frasi che hanno detto i miei studenti e che mi sorprendono. Sicuramente è stato importante, e lo è tuttora.

Ha sempre desiderato insegnare?

L’insegnamento mi è sempre piaciuto, anche se per esempio quando ero in Italia non mi sono mai abilitato, la mia abilitazione l’ho presa in Svizzera, perché non era la mia prima scelta. Mi sarebbe piaciuto all’inizio quando studiavo, ma pensavo piuttosto a una carriera universitaria. Poi ho cominciato quella via: ho lavorato all’università per sei anni a Berna, e alla fine devo dire che ero molto stanco, nel senso che mi sembrava di lavorare per nessuno, avevo quest’impressione, mi sentivo molto solo. A volte anche fisicamente lavoravo da solo, in una stanza senza nessuno e sentivo che mi mancava qualcosa, mi mancava il contatto con gli altri. Allora l’idea dell’insegnamento mi è venuta proprio mentre facevo questi passi, perché ho capito che mi avrebbe dato la possibilità di parlare a qualcuno di quello che mi piaceva, di quello che mi interessava. Così ho virato sull’idea dell’insegnamento, anche se la possibilità di insegnare è stata casuale, nel senso che qualcuno mi ha detto: “Guarda c’è qualcosa in Ticino, ti interessa?” e io all’inizio ho detto: “Ma no, ma figurati” poi ho cominciato a pensarci ed è andata avanti così.

Sapeva o immaginava che avrebbe esercitato la sua professione all’estero?

No, se l’Italia fosse un paese normale e civile mi piacerebbe anche viverci, ma siccome non lo è… Per me era impossibile fare qualsiasi cosa in Italia, ho provato qualunque tipo di lavoro: ho provato a tradurre, ma non mi pagavano i libri tradotti; o provato nell’insegnamento, ma alcuni corsi erano quantomeno opachi, non si capiva nemmeno bene quali fossero i criteri. Quindi alla fine ero molto stanco e ho deciso che non si poteva continuare. Adesso sono in Ticino e sto bene.

Secondo lei, qual è il ruolo della poesia e del poeta nella società di oggi?

Devo dire la verità o devo…(ride)? Dunque, io temo che il posto della poesia sia davvero minimo, stavo per dire nessuno, ma diciamo minimo. Non è un atto di accusa nei confronti di nessuno, anche i poeti hanno la loro responsabilità perché hanno fatto di tutto per non farsi leggere, per non arrivare ai lettori. D’altra parte la poesia è un’arte che obbliga i lettori a mettersi in discussione. È un’arte difficile perché spesso non offre nessuna sicurezza, non offre un’interpretazione univoca. Con i miei studenti, per esempio, mi capita di sentire il loro fastidio per il fatto che una poesia non si capisca veramente. Si deve essere disposti ad accettare che la poesia non si capisca a volte, non c’è una sola interpretazione, non c’è un solo senso: e questo esige un lettore che sappia incontrare tutto ciò e lo sappia accogliere. Spesso ho l’impressione che questo tipo di società, così veloce e così basata sul profitto, non voglia questi lettori dubbiosi e che abbia bisogno invece di persone molto certe. La poesia invece no: ha bisogno di persone piene di dubbi, quindi a volte si fa fatica a trovare una risposta. Perciò il ruolo della poesia è minimo. Diceva un grande poeta che era Auden: “L’unico grande compito che è rimasto alla poesia è quello di disintossicare e di dire la verità” ecco, forse sono d’accordo con lui.

Sara Artaria