Quando lo sport diventa mediatico
Intervista a Giancarlo Dionisio sull’evoluzione del rapporto tra il giornalismo e il mondo sportivo

di ELIAS BERNASCONI

 

Giancarlo Dionisio è da diciotto anni giornalista presso la Radiotelevisione Svizzera di lingua italiana (RSI). Dopo un inizio nell’attualità regionale, è passato ad occuparsi di sport, concentrandosi prevalentemente su ciclismo e sci nordico. Nella sua lunga carriera ha potuto sperimentare di persona la ricerca della notizia e la sua evoluzione. Partendo dalle sue parole, si vuole presentare uno spaccato del mondo sportivo attraverso gli occhi del giornalismo. I cambiamenti, non tanto agonistici quanto piuttosto sociali e mediatici, che hanno influenzato lo sviluppo e il modo di intendere questo mondo negli ultimi vent’anni, riguardano temi d’attualità come l’influenza degli sponsor, l’uso a doppio taglio dei social media ed il nuovo statuto che l’atleta professionista assume.

Giancarlo Dionisio, com’è cambiato il giornalismo sportivo nell’ultimi vent’anni?

 Innanzitutto si deve considerare che è cambiato radicalmente il flusso delle notizie e delle informazioni. Oggi, con il proliferare delle fonti e l’innesto dei social media come canale supplementare, si rischia di perdersi in questo mare. Una volta, quando ricevevi la notizia da canali ufficiali come le agenzie di stampa, eri comunque chiamato a una verifica. Oggi questo controllo della notizia diventa un processo essenziale. Per quanto riguarda il mondo dello sport, una volta gli atleti non producevano direttamente le comunicazioni, mentre oggi sono loro stessi i fornitori diretti di notizie. Questo cambiamento per noi giornalisti è molto destabilizzante.

Questo canale diretto costituito dai social media a volte si ritorce contro l’atleta stesso, e le società poi sono costrette ad intervenire e lo sportivo a fare retromarcia.

Spesso questi tweet o questi post, queste informazioni che vengono direttamente dall’atleta, sono frutto di uno stato adrenalinico. Ecco perché questo canale, che permette di riportare con ancora più facilità una notizia a caldo, può facilmente sfuggire di mano, con il rischio di danneggiare l’atleta stesso, il club che rappresenta, la città o la tifoseria. Ecco perché, dal punto di vista di noi media, ci vuole un’estrema prudenza quando utilizziamo questo tipo di notizie.

Com’è cambiato negli ultimi vent’anni il rapporto tra sportivo e media, influenzato sempre più prepotentemente dalle pressioni di società e sponsor?

Secondo me anche in questo ambito si è assistito ad un cambiamento radicale. Premetto che sono dell’idea che un rapporto di amicizia stretta tra giornalista e atleta non sia salutare, mentre un rapporto di frequentazione per avere sempre notizie della situazione è più consigliato. Personalmente posso prendere come esempio il ciclista Fabian Cancellara. Prima con lui si aveva la possibilità di parlare a cena, magari insieme anche ad altri colleghi, e lo stesso Fabian si intratteneva in battute e discorsi aperti. Poi c’è stata la fase del Cancellara vincente, con i primi titoli mondiali, quelli del 2006 e del 2007, passando pure dall’oro olimpico nella cronometro a Pechino 2008. Successivamente, dal 2009, ecco che qualcosa cambia: il campione Cancellara ha cominciato ad essere più prudente, filtrato in continuazione dalla società e gestito dagli sponsor. Si finisce quindi a lavorare con un addetto stampa, che ha un ruolo determinante in queste dinamiche, perché è quello che protegge il corridore, il quale se ne fa scudo, creando di fatto una distanza che rende impossibile ottenere quelle informazioni che prima si riusciva ad avere. Il campione risulta dunque sempre più blindato; i calciatori lo sono da decenni, mentre i ciclisti lo sono da pochissimi anni. A questo proposito il crinale è stato l’avvento di Lance Armstrong, che con una storia personale molto coinvolgente ha attirato attorno a sé un’attenzione mediatica sconosciuta ai personaggi del ciclismo precedenti. Con lui è dunque cominciata l’era del corridore-campione blindato. Più che lo sponsor è dunque la società ad imporre questo filtraggio.

 Il cambiamento evidenziato potrebbe dunque rispecchiare una presa di coscienza da parte dei media del potere sempre maggiore di cui dispongono nel mondo dello sport?

Assolutamente sì. Un altro aspetto che è cambiato radicalmente è proprio la gestione individuale dell’atleta, del campione, che magari dieci o vent’anni fa andava al microfono allo sbaraglio, mentre oggi – chi più chi meno – riceve dei consigli, viene istruito su come esprimersi, su cosa dire e su cosa non dire. A mio parere ciò ha portato sì ad una maggiore protezione della sfera privata dell’atleta, ma anche ad un appiattimento per quanto concerne le interviste. Tornando a Fabian, che è lo sportivo con il quale ho avuto più contatti, lui riesce ancora ad essere Cancellara nonostante tutto, e riesce ancora trasmettere dei concetti importanti. Oggi però, il più delle volte, l’atleta preso subito prima o subito dopo una gara non dice assolutamente nulla. In genere trovo che l’apparato costituito da società, sponsor, addetti stampa, e così via ha appiattito il flusso di comunicazione tra atleta e media.

Tra gli sportivi, c’è chi non ha digerito questa evoluzione mediatica. Per esempio, Casey Stoner, campione del mondo in MotoGP nel 2007 e nel 2011, non ha mai nascosto di amare correre in moto, ma di detestare tutti quegli aspetti collaterali al motomondiale, dalle conferenze stampa agli incontri presso gli sponsor.

È un discorso che può variare molto da sportivo a sportivo. Che l’esposizione mediatica alla quale un campione di oggi si deve sottoporre sia nettamente superiore rispetto a quella di un campione di venti o quarant’anni fa è un dato di fatto. Ciò accade anche perché oggi si sono moltiplicate le occasioni per fare ad esempio delle interviste. Pensiamo a Roger Federer, che appena finita una partita deve presentarsi alle tre televisioni nazionali svizzere, alla televisione per il segnale internazionale, più tutta una serie di richieste da parte di molti altri media, come radio, siti internet e giornali. In questo panorama ci sono persone che stanno al gioco, perché hanno razionalmente accettato che ciò fa parte del lavoro e che guadagnano anche grazie a questa cassa di risonanza, e lo sponsor paga anche in base alla pubblicità. Altri invece soffrono tantissimo questa situazione: penso ad esempio anche a Michela Figini, che ha smesso di sciare a 24 anni dopo aver vinto un oro olimpico e due coppe del mondo. Ha smesso per dissapori con una certa persona del suo staff, ma anche perché lei non reggeva, non sopportava il microfono, la telecamera, e ancora oggi non si fa più vedere nel mondo sportivo. Ha scelto di allontanarsi completamente da questo mondo, ha scelto di vivere una vita normale lontano dai riflettori. Un altro esempio in questo senso è il fondista Dario Cologna, un ragazzo molto intelligente e che è capace di stare al gioco, ma che quando lo si intervista soffre tantissimo questa situazione. La cosa positiva è che poi magari, presi in altro ambito che non sia lo stress della competizione, queste persone riescono ad esprimersi e a raccontarsi apertamente. A volte sta proprio al giornalista scegliete l’ambito migliore per mettere a suo agio lo sportivo. D’altronde non siamo tutti uguali. Ma oramai il gioco è questo: o lo giochi fino in fondo, o non lo giochi. Puoi raccontarmi ciò che vuoi, però raccontami qualcosa.

Rimanendo nell’ambito dei cambiamenti, una delle novità presentate dalla RSI è la possibilità di seguire gli eventi sportivi in streaming. Questa ulteriore risorsa permette, ampliando il palinsesto, di “non scegliere” dando più visibilità ad un evento prima lasciato nell’ombra?

Un certo sistema gerarchico rimane, ma in effetti lo streaming presenta l’opportunità di poter trasmettere e coprire entrambi gli eventi sui quali prima veniva invece fatta una scelta. Personalmente comincio solo adesso ad adeguarmi. Inizialmente ho vissuto un periodo di frustrazione: l’andare sul web significava passare attraverso un canale di secondaria importanza. Però bisogna ammettere che il futuro è lì, e l’avvento dello streaming permette di ampliare l’offerta e la divulgazione di sport ed eventi prima lasciati ai margini. Tra l’altro si parla sempre di più di una possibile chiusura di RSI2, che nei vari discorsi di razionalizzazione di risparmio potrebbe essere spostata completamente sul web. Magari passeranno dieci o quindici anni, però come ho detto il futuro è lì: per le generazioni future accendere la TV o un tablet sarà la stessa cosa, con il vantaggio che il secondo è molto più funzionale e mobile.

Giancarlo Dionisio con il ciclista Vincenzo Nibali

Giancarlo Dionisio con il ciclista Vincenzo Nibali