Una ragazza in lotta nel violento Mendrisiotto del ‘600
Intervista a Carlo Silini sui suoi due romanzi che narrano, tra fantasia e realtà, di un'inquieta popolana che cerca di sopravvivere alle angherie di un signorotto

di ASIA DELLA BRUNA

Giornalista e caporedattore del Corriere del Ticino, vincitore nel 2015 e nel 2017 dello Swiss press award, il più importante premio svizzero di giornalismo, Carlo Silini è anche autore di due romanzi storici, entrambi ambientati in un oscuro e violento Mendrisiotto del Seicento. Nel 2015 ha, infatti, pubblicato per Gabriele Capelli Editore il libro Il ladro di ragazze a cui ha fatto seguito nel 2017 Latte e sangue, sempre per lo stesso editore. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare come è nata la storia della protagonista dei due romanzi, una inquieta ragazza del popolo che lotta per sopravvivere tra rapimenti e uccisioni, nelle terre tra l’allora Ducato di Milano e i baliaggi svizzeri a sud delle Alpi, sullo sfondo di storie di streghe e inquisizione.

I suoi romanzi narrano le sfortunate vicende di una ragazza nel Mendrisiotto del Seicento, perseguitata da un fantomatico e sadico signorotto locale, chiamato Mago di Cantone. Come mai quest’idea? Da cosa nasce la scelta dell’ambientazione temporale e geografica?

“La scelta geografica nasce dal voler raccontare una storia del territorio dove vivo e dove sono nato e cresciuto, dove ho sentito fin dalla più tenera infanzia la leggenda del Mago di Cantone, un signore terribile che rapiva le ragazze nella pianura che va da Mendrisio a Riva San Vitale. Mi ricordo quando mio papà mi faceva vedere nei campi di San Martino un vecchio caseggiato e mi diceva ‘quello lì è il castello del mago di Cantone’. Quando gli chiedevo cosa fosse mi rispondeva che ero troppo piccolo e non poteva dirmelo. Crescendo mi hanno raccontato la storia, ma a grandi a linee, perché non esiste una leggenda ufficiale del mago di Cantone. Ho un legame affettivo con questa storia che mi fa pensare a emozioni forti che ho vissuto. A un certo punto ho avuto voglia di narrarla e ho cercato di capire cosa ci fosse di vero nella leggenda. Consultando gli archivi locali, ho scoperto che gli storici del Mendrisiotto ipotizzavano che dietro a questo oscuro personaggio ci fosse un nobile lombardo: Francesco Secco Borella. Di lui si sa che è vissuto proprio nell’antico castello che mi indicava mio padre ed è arrivato nel territorio attuale di Riva San Vitale nel 1603. La scelta di ambientare i due romanzi nel Seicento dipende dalla ricerca storica, quindi.”

Il periodo storico, il luogo geografico, due giovani amanti ed il loro amore reso impossibile da vicende e intromissioni esterne creano un legame con I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Ciò che colpisce dei suoi romanzi è però l’assenza di Provvidenza manzoniana: tutto è ciò che è, fine a sé stesso, la realtà è più cruda.

“È una storia scritta negli anni duemila, quindi in un tempo in cui a dominare è lo spirito laico. Io sono totalmente laico nelle mie convinzioni, anche se – alla mia maniera – sono credente. Però ho voluto appositamente eliminare il riferimento alla Provvidenza. Primo, per la modernità dell’opera: oggi non ha più senso scrivere con il criterio – diciamo – manzoniano una storia del genere. Secondo, perché trovo intrigante immaginare una vicenda così complessa in cui il senso è dato dalla Storia e non da qualcosa al di sopra di essa.  Inoltre, è vero che la leggenda mi portava al Seicento, alla Lombardia, a una storia d’amore contrastata, ed effettivamente tutto corre a Manzoni, ma in questo confronto mi sento come una formica di fronte a un monumento. È una casualità, ma ho dovuto percorrerla fino in fondo.”

C’è chi identifica Francesco Secco Borella anche come ispiratore del personaggio dell’Innominato di Manzoni.

“Si parla di vari personaggi storici, sono state fatte tante ipotesi. Ed è vero che esiste anche un’ipotesi che identifica nel Borella l’Innominato del Manzoni. È un’ipotesi che è stata portata avanti da un professore di storia di Riva San Vitale, che l’aveva sottoposta agli studiosi del Manzoni, i quali hanno detto che poteva sì essere possibile ma che i candidati più probabili erano altri.”

Alcuni personaggi di cui lei narra le vicende portano nomi di persone realmente esistite, e ne vestono in parte anche i panni. Partendo da fonti storiche e informazioni su personaggi reali del 1600, lei ha cucito attorno a queste figure caratteri, movenze e attitudini. Come ha lavorato alla creazione di questi personaggi inventati solo in parte? Vi è differenza tra il modo di dare una vita cartacea ad un personaggio del tutto inventato e a uno che è realmente esistito?

“In effetti c’é più libertà nel creare un personaggio completamente inventato. Va però detto che i nomi che ho recuperato sono reali, presi dagli archivi, ma a volte di vero c’è solo quello o poco più.. Per esempio, ho trovato l’atto di battesimo di Maddalena de Buziis, che è una dei protagonisti dei due romanzi, nel liber baptizatorum della parrocchia di Mendrisio. Ma di lei io so solo il nome. Quello che è successo storicamente a questa persona, che ho adottato nel romanzo, non lo so. Conosco ciò che è scritto nell’atto di battesimo, cioè che è stata portata in emergenza per farsi battezzare perché era in punto di morte. Questa è storia, tutto il resto fiction. L’80% dei personaggi menzionati sono realmente esistiti perché i nomi li ho tratti dai documenti, ma la loro psicologia e la loro stessa biografia, me le sono inventate. Tuttavia che alcune storie secondo me sono abbastanza verosimili, ed è credibile che abbiano avuto un certo tipo di destino.

C’è un personaggio ne Il ladro di ragazze che è particolarmente toccante, Barbara Fontana. Barbara era stata condannata a morte come strega e gli atti del processo sono conservati nell’archivio Torriani a Bellinzona. Leggendoli si capisce che era una ragazza che ha avuto la sfortuna di essere processata per delle accuse risibili, come aver fatto morire il bue di tal tizio o aver detto delle male parole che avrebbero fatto star male un bambino. C’è tutto l’atto del processo in cui lei reagisce e protesta. È un atto notarile, ma ne emerge una personalità forte e una vicenda tragica che mi ha aiutato a dare concretezza ai personaggi. Molti altri sono invece solo nomi che ho raccolto e ambientato nella storia.”

C’è quindi la possibilità di affezionarsi in qualche modo ai personaggi e alle storie che emergono dietro i loro nomi?  

“Non ci ho mai pensato in questi termini, però mi sono letteralmente innamorato di alcuni personaggi, per quello che devono avere vissuto. Ho trascorso molto tempo a ragionare come se fossero persone che conoscevo realmente, e poi li ho dovuti vestire: immaginarmi i tratti somatici, la voce, la passionalità o la freddezza. Mi sono affezionato soprattutto agli sconfitti, perché da alcuni di questi documenti emergono situazioni in cui – a meno che una persona non abbia proprio il cuore di sasso – ci si commuove. Nel secondo libro, Latte e Sangue, c’è un’altra vicenda, un’altra ragazza che è stata giustiziata perché accusata di infanticidio e questa è una storia ancora più drammatica perché è stata uccisa a 14 anni. Negli atti processuali viene detto che il balivo l’aveva fatta decapitare per misericordia, era una pena che implicava meno sofferenza fisica rispetto ad altre. Lei aveva chiesto una grazia che le era stata concessa: che non le legassero le mani dietro la schiena. Questa cosa mi ha colpito tantissimo, ho immaginato la scena: lei con le mani dietro la schiena che, nel momento in cui le mozzano la testa, le apre, come per volar via. Certo che ti affezioni a questi personaggi, perché cerchi di capire la psicologia, il dramma, il coraggio e la paura che possono avere vissuto. Evidentemente sì, ho arricchito la mia famiglia spirituale di presenze che forse sono state esattamente così o forse no.”

Entrambi i suoi libri hanno una pianificazione antecedente al momento stesso di scrittura ed una ricerca storica, basata cioè su fonti reali. Nello scriverli è partito in un certo senso da una notizia del 1600 arricchendola con la fantasia, realizzando così una sorta di connubio tra giornalismo e prosa romanzesca. Potremmo dire che un approccio giornalistico è rimasto nella scelta dei suoi lavori?

“Assolutamente sì. Anzi, inizialmente, quando ho preso in mano i materiali storici, la prima idea era quella di scrivere una serie di articoli culturali a proposito della leggenda del mago di Cantone. Ho optato alla fine per il romanzo perché c’erano troppe falle nella trama. Storicamente, riuscivo a dire che c’era un tizio che era scappato dal Ducato di Milano, si era rifugiato in Svizzera e aveva commesso una serie di delitti. Però c’erano talmente tanti buchi in questa trama che ho dovuto – ho voluto – sostituirli con la fantasia. Questi libri hanno tre componenti, la Storia, la fantasia e la leggenda, sono un frullato di questi tre elementi che ho utilizzato, per creare storie coerenti. Degli articoli di giornale, per quanto interessanti potessero essere, non avrebbero mai restituito la sfera, il disegno completo, di quello che poteva essere successo. È chiaro che, per quanto riguarda le vicende narrate, non ho prove che le cose siano andate realmente così, sono solo ipotesi narrative. L’imprinting giornalistico è dato dal fatto che si parte da una ricerca di cronaca, cronaca di quel tempo.”

Lei è laureato in teologia, è giornalista da diversi anni e recentemente ha intrapreso anche una carriera da scrittore. I suoi romanzi storici hanno una forte impronta religiosa. Sembra quasi che lei abbia ricreato su carta ciò che è lei. Vi si riconosce? Non tanto (ovviamente) nelle vicende narrante, ma quanto nel carattere generale?

“Lo dico per me, ma credo di poterlo dire per tutti gli scrittori. Ogni libro di finzione, ogni romanzo e ogni racconto, per funzionare deve essere vero. Non vero come prova storica o scientifica, ma deve risuonare la verità di ciò che si sta scrivendo. Se scrivi di un sentimento, devi averlo provato o averlo visto provare da qualcuno. Se descrivi una situazione amorosa, è perché hai vissuto l’amore o non l’hai vissuto e allora lo restituisci sulle pagine. Proietti sogni o cose non realizzate in alcuni personaggi o situazioni, in altri invece sotto mentite spoglie ci sei realmente tu, in certe scene, in un insulto, un momento di rabbia o sconforto, o in un innamoramento perduto. Certo che ci sei tu, perché non puoi barare. O meglio, puoi barare su tante cose, ma se vuoi che il tuo scritto sia credibile, deve essere vero, ci devi essere dentro. Devi prestare alla narrazione il tuo mondo, non ne hai un altro, sei a tu per tu con la pagina e devi riempirla con quello che hai dentro.”

Una lunga carriera da giornalista e poi il “salto” come scrittore. Succede sempre più spesso che professionisti della penna decidono di intraprendere la strada della prosa, accanto alla professione di giornalista. Come mai secondo lei?

“Per me, è stato in parte casuale, volevo scrivere una bella storia, ma non andava bene per il giornale. Scrivere un articolo e scrivere un romanzo sono due cose completamente diverse. Sempre di scrittura si tratta e sempre di scrittura vivo, però un articolo giornalistico deve rispondere ad alcune regole precise e deontologiche. Devi seguire una griglia normativa abbastanza rigida, il lettore ha diritto di arrivare il più vicino possibile alla realtà dei fatti. In questo caso è il contrario, io posso prendere la mia griglia e farla esplodere. Se posso fare un paragone abbastanza eloquente, è come quando da bambino avevi davanti un prato verde sterminato e per la prima volta ti veniva dato il permesso di correre, di fare ciò che volevi. Il passaggio dal giornalista allo scrittore è questo, finalmente nel campo puoi muoverti come vuoi: puoi correre, saltare, fare le capriole e perfino cadere. Cosa che non è concessa nel giornale, in cui si hanno regole da rispettare e si deve cercare di incuriosire il lettore. Secondo me molti giornalisti passano alla narrazione per questa ragione, per il grado di libertà molto superiore che essa dà. È un senso di libertà quasi inebriante.”

A differenza di quello che è il panorama italiano, in cui vi sono molti editori e con vendite importanti, in Ticino vi è una realtà di piccole case editrici, con numeri spesso più limitati. Quanto è difficile “fare lo scrittore” in Ticino?

“Fare lo scrittore è difficile oppure è facile dappertutto nella stessa maniera. La difficoltà è la pubblicazione. Ho scritto due romanzi con un bravissimo editore ticinese, Gabriele Capelli, e ho avuto fortuna narrativa ed editoriale, perché hanno venduto bene nel territorio della Svizzera italiana. La mia ottima vendita ticinese corrisponde però a un’ottima vendita in un quartiere di Milano, eppure è scritto nella stessa lingua di Milano, potrebbe potenzialmente avere un mercato di sessanta milioni di italiani. La difficoltà per uno scrittore ticinese è riuscire a sfondare la frontiera e diventare un autore letto in Italia. Ma nel mio caso per esempio, veramente non posso lamentarmi, il romanzo Latte e sangue – con mia assoluta sorpresa – è stato preso in considerazione per il premio Campiello, ma questo da un punto di vista del mercato non conta. In Ticino, se sei fortunato vendi mille, duemila, copie, poi però è molto difficile entrare nel mercato italiano, dove ci sono molti più scrittori e sono molto più bravi e conosciuti di te. È arduo entrare concorrenzialmente in un mercato dove ci sono firme come Camilleri o Vitali, è ovvio. Da un punto di vista della scrittura e dell’identità di scrittore, però secondo me non cambia nulla. Le stesse difficoltà e gli stessi entusiasmi si provano in qualsiasi parte del mondo.”