Sibilla De Stefani è nata a Lugano nel 1987 e ha studiato Italianistica e Storia generale presso l’Università di Ginevra, in seguito ha conseguito un Master, sempre a Ginevra, in Lingua e letteratura italiana, con una tesi di laurea consacrata al poeta ticinese Fabio Pusterla (Premio Arditi 2012). Dal 2012 lavora presso l’Università di Zurigo come assistente della Prof. Tatiana Crivelli, che ha diretto, insieme al Prof. Gordon (University of Cambridge) la sua tesi di dottorato dedicata alla letteratura italiana della Shoah, e in particolare alle opere di Primo Levi e Liana Millu, discussa a Zurigo nel marzo del 2016 e intitolata L’anticiviltà. Dal mondo rovesciato al rovesciamento della parola: lo Zivilisationsbruch di Auschwitz nelle testimonianze di Primo Levi e Liana Millu.
Nel 2016 ha pubblicato il suo primo romanzo intitolato L’ultima innocente (Bellinzona, Salvioni).
Il romanzo racconta una storia familiare particolarmente difficile: come mai ha deciso di affrontare temi come questi e come si è trovata a dover fare i conti con una realtà tanto delicata?
Tutta la storia è nata da un’idea di base, quella di una sorta di spirale infernale. L’idea di una serie di storie, alcune drammatiche più di altre, tutte abbastanza difficili che però singolarmente potevano essere nei limiti gestibili dai protagonisti. L’idea è che casualmente -se il caso esiste- si vanno ad intersecare conducendo poi alla catastrofe. Quindi una serie di storie che si incontrano, che si scontrano, con l’intenzione di andare a vedere poi cosa succede quando queste storie intersecandosi portano all’esplosione finale. Quest’idea della spirale era presente fin dall’inizio. Così come fin dall’inizio io conoscevo il finale, sapevo infatti come sarebbe andata a finire la storia. Tant’è che le pagine finali sono tra quelle meno ritoccate di tutto il libro, ci sono invece capitoli che sono stati rielaborati più e più volte, ci sono delle parti che sono state tagliate, però il finale è sempre stato lì in qualche modo.
Per venire invece alla questione del tema: è vero che è un tema delicato. Ovviamente il tema della famiglia come nucleo portante della società è variamente affrontato da svariati autori e autrici: questo è un classico. Non sempre forse, ed è un po’ quello che avevo in mente io, viene affrontato nelle sue parti d’ombra, o almeno non in maniera sistematica. Ci sono grandi scrittori, anche dei classici, che si sono occupati della famiglia: fra i classici assoluti per esempio Tolstoj che senz’altro è presente variamente fra le righe. La mia idea era però di parlare di quegli aspetti legati alla famiglia che spesso non vengono tematizzati e di mettere anche in scena dei personaggi, come per esempio Sarah e la sua famiglia, che sono delle persone che fanno parte della società, di qualunque società -perlomeno in occidente- di cui però in fondo non vogliamo mai parlare, tranne forse quando è troppo tardi. Per esempio il finale potrebbe essere un articoletto di giornale, quei classici articoli che tu li leggi e dici “ma come diavolo è potuto succedere?”. Ecco l’idea era di capire come poteva succedere, di come si arriva fino a quel punto e se è possibile arrivare fino a quel punto e ovviamente, purtroppo, le notizie quotidiane ci dimostrano che sì, che è purtroppo possibile. E in qualche modo io volevo cercare di fare un po’ di luce, nei limiti del possibile, su questo aspetto. Non perché non creda nella famiglia o perché pensi intrinsecamente che… anzi, anzi! Però penso che questa sia anche una parte di qualunque vita famigliare, forse qui è portata un po’ all’estremo, ma in fondo è quello che fa la letteratura e dare dunque voce a quel tipo di profilo antropologico, sociale, culturale… che di solito non ha voce, e provare a raccontare anche una di queste storie.
Come ha proceduto per l’elaborazione del romanzo?
Un’idea era appunto quella della spirale. Poi il finale l’ho visto, non so come spiegarlo, l’ho intuito, ho visto quel finale lì e a partire da lì ho cercato di ricostruire.
L’altra cosa che era chiara fin dall’inizio era che al centro volevo mettere un rapporto tra un padre e una figlia. Una figlia che ha molto peso sulle spalle perché in vario modo va anche a sostituire una figura materna assente. Questi sono stati un po’ gli elementi di base dell’inizio. Io quando scrivo lavoro in una maniera molto precisa, anche perché prima di questo romanzo ne avevo scritto un altro, mai pubblicato, che però mi è servito un po’ come banco di prova. Quindi qualche tecnica o qualche metodologia ce l’avevo già, ovviamente personale, poi ognuno fa a modo suo. Io per esempio lavoro così: non è che scrivo di getto, cioè il mito dello scrittore che si mette lì baciato dall’illuminazione… forse esiste però non è stato il mio caso! Mentre io appunto il finale lo conoscevo già, più o meno i protagonisti li ho delineati grossomodo facendo qualche scheda ma non più di tanto. Ho fatto poi quello che io chiamo “scheletro”, cioè un file word in cui ho buttato dentro un elenco di tutte le scene che già avevo in mente di scrivere. Poi ci sono quelle che si chiamano “scene madri”, quelle più importanti che sono un po’ delle svolte all’interno del romanzo e le scene tra virgolette “di riempimento”, quindi che servono o come approfondimento psicologico o per alleggerire ogni tanto il ritmo, o per inserire delle informazioni che servono per la comprensione della storia, quindi scene “secondarie”.
Una volta completato – in realtà non è che lo completi mai fino in fondo- però una volta che ho avuto le grandi linee di questo “scheletro” ho cominciato a scrivere. Non per forza linearmente, non è che ho iniziato a scrivere la premessa poi il capitolo uno, due e tre. Ho scritto delle scene, non mi ricordo onestamente quali ho scritto per prime, però senz’altro non ho seguito una linearità. Poi a mano a mano depennavo sullo “scheletro” quello che avevo scritto, ovviamente tutto ad un livello di prima stesura. Infine ho messo insieme tutti questi capitoli e ho avuto una prima bozza.
Poi l’ho lasciato lì, senza più toccarlo ne rileggerlo né nulla, perché avevo bisogno di distanza, se no rischia che non capisci più nulla, sei troppo dentro. Dopo due o tre mesi l’ho ripreso in mano, l’ho riletto di getto -tra l’altro a stampa- e lì mi sono accorta che la storia funzionava, forse più di quanto avessi previsto, nel senso che si imbrigliava bene, il ritmo più o meno c’era… Lì ho cominciato a rielaborare le varie scene, curandole un po’ di più anche dal punto di vista stilistico. Allora ho fatto fare un giro di letture: a pochissime persone, cinque o sei, forse anche meno e poi ho integrato i commenti, che erano svariati: da chi mi ha detto “ah ma qui questo dettaglio non funziona” a chi mi ha detto “ah però ad un certo punto la storia è troppo pesante e decade il ritmo”, insomma ho preso nota di tutte le cose e ho in certi casi rielaborato, in altri ignorato, però quasi mai perché in genere questi consigli sono utili.
Poi l’ho lasciato lì e l’ho mandato un po’ in giro, me ne sono un po’ dimenticata…
L’ho poi ulteriormente rielaborato operando qualche taglio, c’erano alcuni dettagli della costruzione che erano diversi: li ho tagliati e li ho sostituiti con delle varianti sostanziali, per una questione di coerenza della storia che funzionava maluccio, e poi dopo c’è stata la questione della pubblicazione e quindi ho fatto l’editing, però considera che io questo libro l’ho scritto nel 2012-2013, poi tra una cosa e l’altra, quando si è cominciato a parlare della pubblicazione era il 2015. L’editing l’ho fatto, il grosso, durante le vacanze estive. Qui ho operato altri tagli e altri cambiamenti: per esempio nella storia di Angela, prima c’erano più dettagli su quel personaggio, però appunto visto che la protagonista era Sarah anche l’editor mi ha detto “ma sei sicura che vuoi dare così tanto peso anche ad Angela?” Perché ovviamente anche la sua storia non è facile -lo si intuisce tra le righe- e quindi alla fine l’ho ridotta.
La sua prima pubblicazione è un romanzo, ma scrive anche poesia oltre alla prosa?
No. Mi ci sono cimentata come tutti quelli che scrivono più o meno, però più in chiave puramente privata. Non ho mai scritto un verso con l’idea di pubblicarlo. Non perché non mi piaccia la poesia, ma perché non è diciamo laddove io mi sento più a mio agio. Poi non so, sono sempre stata forse un po’ troppo realistica rispetto alle mie doti presunte, le mie doti poetiche (ride). Se lo faccio è per appunto uno sfogo personale, ma non ha nulla a che fare con una produzione letteraria mirata ad una pubblicazione.
Lei insegna anche presso l’Università di Zurigo: questo ambito lavorativo ha avuto un’influenza sulla sua produzione letteraria?
Direi di no, anche perché io ho sempre portato un po’ avanti un’attività diciamo accademica, quindi quella della ricerca e della tesi di dottorato, e quella della scrittura creativa. Per me sono sempre state due cose un po’ parallele, cerco di non mischiarle. Sono due mondi molto diversi, ovviamente legati, ma lavorare a un romanzo non è lavorare a una tesi.
Che effetto le ha fatto vedere il suo romanzo sugli scaffali delle librerie?
Sai cosa ti dirò? Ovviamente ero contenta, però non è stata quella cosa che dici “oddio muoio!”, io stessa sono rimasta un po’ sorpresa. Però me lo sono chiesta, perché in fondo prima di pubblicare è sempre stato un po’ il classico sogno nel cassetto, cioè qualcosa che volevo fare, però i tempi dell’editoria sono talmente lunghi, cioè dal momento in cui ho firmato il contratto al momento in cui il libro è uscito sono passati due anni! Quindi penso che in due anni hai larghissimamente il tempo di abituarti all’idea. Poi ovviamente è stato comunque un bel giorno, è una bella avventura e continua ad esserlo però ecco sono davvero tempi lunghi, poi appunto nel 2012 ho scritto la prima stesura quindi… ho fatto in tempo a scrivere una tesi di dottorato (ride).
Sono in programma altre pubblicazioni?
Sto effettivamente lavorando ad un secondo libro. Certe tematiche si ritrovano senz’altro, però è un’altra storia rispetto a L’ultima innocente, nessuno dei protagonisti si ritrova.
A questo proposito: nel prossimo libro chiederà lo stesso impegno al lettore e manterrà lo stesso stile del precedente?
Sono consapevole che questo primo libro sia difficilino da leggere, non perché sia scritto difficile, ma emotivamente… infatti anche gente che non conosco mi ha scritto dicendomi “mi ha distrutto”, in realtà erano anche contenti. Immagino che gli altri non mi scrivano del tutto (ride) e lo lascino a metà; però tanta gente era contenta di questo, cioè “contenta”… però è vero che forse quello che in questo libro manca è un filino di luce.
Quindi per il prossimo sto cercando di riequilibrare un po’ le prospettive, penso che le tematiche di base rimarranno, anche perché ormai è quello che mi interessa ed è inutile stare a scrivere una storia su argomenti che non mi parlano, sarebbe ridicolo. Però cercherò di equilibrare un po’ meglio, anche perché credo sinceramente che riequilibrando un po’ poi quello che tu vuoi far vedere quando le cose non funzionano -o disfunzionano- emergano pure meglio ovviamente, perché se c’è solo quello ad un certo punto è troppo. E penso che il difetto di questo libro sia un po’ quello, è anche un primo romanzo quindi ovviamente va anche visto come un romanzo d’esordio.
Tornando a L’ultima innocente: è un romanzo che chiede tanto al lettore, lo coinvolge, ma è anche molto impegnativo. Aveva in mente un tipo di lettore ideale a cui era indirizzato?
No, onestamente no. Quello che volevo era che fosse accessibile a tutti. Non volevo scrivere un romanzo in “accademichese” per intenderci, volevo anzi lavorare su uno stile di grado zero, in modo tale che la lingua, pur curata perché in fondo è curata, non è un lingua buttata là a caso, però che tendesse a scomparire a vantaggio della storia, dei personaggi, delle ambientazioni, in modo da far uscire questi protagonisti dalla pagina; quindi non mettere in avanti ghirigori stilistici così virtuosi, ma piuttosto il contrario, anche se questo ovviamente richiede molto lavoro sulla lingua: la limatura linguistica è stato uno dei grossi lavori finali, anche tra i più piacevoli devo dire.
Il libro si apre con una premessa: che importanza ha per la storia?
Dipende a quale livello, penso comunque che sia importante. Penso che sia importante prima di tutto per i lettori, perché in qualche modo è quello che ti introduce al libro. Penso che il libro non sarebbe lo stesso se iniziasse direttamente al capitolo uno, perché la premessa fa vedere uno squarcio di qualche cosa che poi scompare, quindi il lettore in seguito entra nella storia a partire dal primo capitolo già con un’altra prospettiva, cioè sa che è esistito un passato che non è come il presente che viene raccontato; penso che questo da un punto di vista narrativo sia fondamentale. Inoltre penso che la prima pagina che leggi sia fondamentale in un romanzo; classicamente l’incipit e l’explicit sono sempre un po’ le due colonne portanti. Mi piaceva questo incipit così un po’ descrittivo, che racconta una semplice scena famigliare, che fa anche un po’ sorridere in fondo. E poi quest’idea delle scarpe rosse che ovviamente è un simbolo che ne evoca molti ho pensato che fosse comunque importante.
Quali consigli darebbe a un giovane ticinese sconosciuto che desidera farsi pubblicare?
Prima di tutto: scrivere, senza mettersi in testa di voler pubblicare a tutti i costi, quello viene dopo! Il vero del lavoro consiste nello scrivere il romanzo o le poesie, quindi di non muoversi, di non manifestarsi prima di aver scritto il prodotto, perché succede anche questo.
La seconda cosa che direi è: una volta che è stato scritto bisognerebbe affidarsi ad una manciata di lettori ideali e avere il coraggio di ascoltare anche le critiche, perché gli scrittori e le scrittrici sono spesso suscettibili -e lo capisco benissimo- perché è “la tua creatura”, ci hai lavorato tanto, però spesso i lettori se sono onesti, come sono se li scegli tu come lettori fidati, possono dare davvero dei buoni consigli. Quindi cercare di ascoltarli e dopo ci sono diverse vie. Si può provare a mandare il dattiloscritto a qualcuno che ha già pubblicato, ovviamente non a caso, cioè se io ho il mio dattiloscritto e lo mando a tutti quelli che hanno già pubblicato senza alcun criterio non serve a niente, invece quello che va fatto è valutare chi ha pubblicato cosa e chiedersi se quello che faccio io va un po’ in quella direzione. Quindi se io scrivo prosa mi rivolgerò a qualcuno che va in quella direzione. Tenendo presente che non sempre funziona, perché non tutti sono disposti ad aiutare i giovanissimi e gli sconosciuti, ma non bisogna scoraggiarsi. L’altra via, che io in questo caso non ho davvero percorso, ma che in alcuni casi funziona, è quella dei concorsi letterari: c’è per esempio da un paio d’anni lo Studerganz aperto anche ai giovani e alle giovani ticinesi e quello si può sempre tentare.
Poi ovviamente c’è sempre la possibilità di mandarlo alle case editrici, a volte va bene.