Dalla speranza all’incubo dell’emigrazione
Intervista a Noemi Raimondi, psicologa dell'unità mobile per i minori rifugiati non accompagnati

 

di EMILY CALABRO

 

Noemi Raimondi nasce a Reggio Calabria nel 1985, dove vivrà per quattro anni prima di stabilirsi in Svizzera Romanda con la famiglia. Dopo essersi laureata in psicologia all’Università di Losanna, ha trascorso in America Latina un anno, durante il quale ha lavorato come psicologa per due ONG impegnate nella difesa delle vittime dei conflitti a fuoco colombiani.

Attualmente residente a Losanna, lavora come psicologa allo CHUV, dove ha integrato l’unità mobile per adolescenti del Reparto di Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza; unità che si occupa di fornire consulti psicologici e psichiatrici ai minori rifugiati non accompagnati (arrivati nel Canton Vaud).

 

Quando e come nasce la vostra unità?

La nostra unità, che fa parte dell’unità mobile per adolescenti, ha creato nell’agosto del 2017 una squadra speciale per i minori non accompagnati che hanno richiesto l’asilo politico nel Canton Vaud. La squadra è stata creata in seguito ad un arrivo di massa di questi giovani nel 2015, che ha causato un sovraccarico nei centri di accoglienza. In quell’anno si sono registrati tentativi di suicidio su una decina di ragazzi. In seguito a questi eventi, il servizio della sanità pubblica ha deciso di investire fondi supplementari per la nostra unità.

 

Come funziona la presa a carico di un paziente?

La presa a carico è un po’ speciale nel senso che, per la maggior parte, non sono i pazienti stessi a richiedere un consulto psichiatrico. Possiamo essere contattati da diverse persone: la richiesta proviene molto spesso dall’insieme dei professionisti, principalmente dagli educatori, che sono quotidianamente con loro. Ogni giovane ha effettivamente due educatori referenti che sono autorizzati a contattarci in caso di preoccupazioni. A volte siamo chiamati anche dai pediatri, che i minori possono consultare grazie alle loro assicurazioni sovvenzionate dal Cantone. Possiamo avere ancora delle richieste da parte dei curatori, in quanto ogni giovane ha un rappresentante legale dell’Office des tutèles et curatelles del Canton de Vaud.

Siamo inoltre presenti direttamente nei centri di accoglienza. Una volta ogni due settimane prendiamo parte al colloquio delle squadre educative, durante il quale parliamo dei giovani che, secondo loro, necessitano un supporto psicologico. In seguito, tocca a noi valutare se la situazione deve essere effettivamente tenuta sotto controllo. Nei casi più lievi possiamo semplicemente consigliare l’educatore nel suo modo di assistere il minore.

 

La maggior parte dei vostri pazienti esce da un’esperienza traumatizzante. Quale fascia di età sembra risentirne di più?

C’è da dire che i pazienti di cui ci occupiamo possono avere tra i 13 e i 18 anni. Generalmente, possiamo occuparci di loro fino alla maggiore età. I giovani che abbiamo assistito hanno, direi, tra i 16 e i 18 anni, per il semplice fatto che sono quelli ad arrivare più numerosi. Non penso, dunque, che sia un fattore di età.

 

Quali sono gli ambiti di intervento che proponete ai pazienti?

Noi rispondiamo sempre alla richiesta di qualcuno, come ho detto precedentemente. Quest’ultima arriva perché c’è una preoccupazione precisa. Può trattarsi, per esempio, di un giovane che non riesce a verbalizzare la sua sofferenza e preoccupa i suoi educatori, oppure di ragazzi con problemi di droga o disciplinari. Proponiamo sempre una fase di investigazione che consiste nel cercare di creare un dialogo con il giovane, che spesso non vuole avere niente a che fare con noi. Proviamo a comunicare con lui e creare una base di fiducia. Una volta conclusa questa tappa, tutto dipenderà dallo stato del paziente. Possiamo andare a trovarlo direttamente al centro una o due volte a settimana, oppure possiamo piano piano portarlo al consultorio dove potrà iniziare un accompagnamento psicologico o psicoterapeutico, se il caso lo richiede.

La terapia psicologica può durare qualche settimana, ma quella psicoterapeutica richiede un trattamento preciso che può durare anche diversi mesi. Se è necessario possiamo anche decidere di introdurre un trattamento farmacologico. In questi casi, se la terapia va oltre la maggior età del paziente, il caso viene trasferito alla psichiatria adulti dello CHUV.

 

Dal 2015 si conta l’arrivo di centinaia di minorenni non accompagnati nel Canton de Vaud; quanti ragazzi si sono rivolti a voi? E come viene percepita la psicoterapia dagli stessi pazienti?

Bisogna innanzitutto dire che il numero degli arrivi è in forte diminuzione a causa di cambiamenti politici che hanno limitato l’ingresso dei migranti. Per adesso, una cinquantina di giovani sono passati dalla nostra unità. Su questa cinquantina di pazienti, i tipi di intervento sono stati molto diversi.  C’è una parte di questi giovani che sono ancora molto reticenti a collaborare. Alcuni li vediamo relativamente poco e l’unica cosa che possiamo fare è cercare di mantenere un contatto con gli educatori per assicurarci che la situazione non peggiori. La psicoterapia è molto stigmatizzata dagli stessi giovani che hanno sempre paura di essere considerati pazzi se ci vengono a vedere. Ad oggi circa la metà di questa cinquantina sta seguendo un trattamento a lungo termine.

 

Per concludere, secondo lei, il Cantone garantisce un programma di integrazione soddisfacente per gli adolescenti rifugiati non accompagnati? Quali miglioramenti proporrebbe al riguardo?

Il Cantone fa tanto. Hanno aperto i centri, ingaggiato numerosi educatori e ai giovani viene data la possibilità di avere un contatto diretto con i diversi servizi sanitari. Inoltre hanno tutti la fortuna di essere scolarizzati. Malgrado ciò, effettivamente, rimangono dei problemi. Sono difetti che spesso riguardano i centri stessi, che rimangono molto restrittivi. I giovani devono entrare con dei badge, hanno le sbarre alle finestre e, infatti, spesso questo sentimento di reclusione è molto traumatico per loro. Penso che la maggior parte dei servizi messi a disposizione non sia ancora abbastanza competente nella presa a carico di persone con culture diverse. Ho notato spesso che la scuola, per esempio, non si rapporta abbastanza al campo psicologico. Un giovane che crea problemi può facilmente essere espulso dalla scuola o addirittura dal paese. La nostra équipe esiste proprio per questo: cercare di portare una certa armonia a livello scolastico, educativo e sanitario. Il nostro obiettivo è quello di dare un senso a certi comportamenti, per evitare ulteriori sanzioni per questi giovani che hanno già sofferto abbastanza così.