di MADDALENA MUSCIONICO
Elena Ferrante, con Storia della bambina perduta, quarto libro della tetralogia L’amica geniale, ci lascia ancora una volta la testa colma di pensieri. Nell’ultimo volume della saga. l’autrice affronta la maturità e vecchiaia (temi in cui romanzo viene bipartito, attraverso due soli grandi capitoli), delle due protagoniste partenopee: Lenù e Lila.
Le due amiche ormai adulte, come al solito un po’ insieme un po’ divise, affrontano gli ultimi vent’anni della loro vita; anni particolarmente densi di fatti ed emozioni. Sul finire della loro storia, quando la loro personalità si è ormai completamente sviluppata, le due donne sono sopraffatte da un sentimento di arrendevolezza di fronte alla realtà. Lenuccia, nonostante finalmente raggiunga una certa notorietà, scopre via via la sua profonda e inevitabile insoddisfazione, sempre combattuta e negata in passato. È insoddisfatta nel suo ruolo di madre, di donna in carriera, del tanto bramato amore per Nino e dell’amicizia con Lila.
Lila, bloccata da sempre nel vecchio rione a Napoli, sviluppa, insieme al suo compagno Enzo, un avanguardistico centro informatico che in seguito abbandonerà. Dalla personalità profondamente sensibile, dotata della «gratuità dell’intelligenza», – ovvero la libertà di sprecare il proprio talento – la donna ancor più di prima teme la «smarginatura» , termine da lei stessa coniato: uno stato d’animo di piena consapevolezza del « male di vivere », in cui persone e oggetti escono dai loro, da lei definiti, margini. Tuttavia, più si sforza, meno riesce a controllare sé stessa e il proprio desiderio di cancellarsi, fino al punto cruciale: la sparizione di sua figlia Tina. Lila allora rompe i suoi margini fino a dissolversi nel nulla, sparire, cadere nell’oscurità, così come la bambola di Lenú nello scantinato di Don Achille.
La prospettiva di Lenú, io narrante, stende un velo misterioso sull’affascinante carattere di Lila, poiché a noi giunto solo in forma d’ipotesi. Pochi, tra gli scrittori contemporanei, sono riusciti, come la Ferrante, a creare delle psicologie così elaborate da potercisi perdere dentro; ogni tanto si pensa di averle capite e alla fine stupiscono comunque. Il dolore le lacera ma mai in maniera drammatica, la vita le percuote ma vanno avanti e la narrativa, nella saga L’amica geniale, si manifesta nel naturale e realistico succedersi delle azioni, dietro la banalità delle quali si cela una forte richiesta d’aiuto.
Le due donne, facce della stessa medaglia, sembrano alternarsi nella fortuna e nella sfortuna, nel bene e nel male; così come il contesto in cui si trovano è «un ruscellare permanente di splendori e miserie, dentro una Napoli ciclica dove tutto era meraviglioso e tutto diventava grigio e dissennato». Un luogo di sofferenza, morte e violenze di ogni tipo.
La Ferrante, con un cinismo disarmante, ancora sconosciuto fino ad ora, – forse corrispondente al pensiero di due donne provate dalla stremante vita – ci immerge in un’Italia devastante e devastata. A partire dalla scomparsa della piccola Tina, dalla politica corrotta, dall’incessante scontro ideologico, dalla camorra e dalla «roba dei Solara» – ovvero i loschi affari della potente famiglia mafiosa e fascista – che infine si dimostra amaramente «la roba di tutti»; per arrivare al sottovalutato machismo di cui è rappresentate Nino, al terrorismo e le brigate rosse, al terremoto e alla precarietà, all’abuso e alla droga; alla paura. Elena Ferrante riconduce finemente la perdita di una bambina a un Paese decisamente perduto.
Così attraverso quattro libri e quattro età, il forte sentimento delle due protagoniste di voler cambiare, di voler scindere il passato storico dalle loro vite, il desiderio di migliorare il rione e il mondo, le conduce infine ad una semplice verità: «essere nati in questa città serve a una sola cosa: sapere da sempre, quasi per istinto, ciò che oggi tra mille distinguo cominciano a sostenere tutti: il sogno di progresso senza limiti è in realtà un incubo pieno di ferocia e di morte». Una generazione speranzosa si dimostra, nell’ultimo capitolo della vita, disillusa e semplicemente identica a quella dei loro genitori, come un percorso che mai si completerà.
La Ferrante si dimostra capace, specialmente in quest’ultimo romanzo, di una lingua coinvolgente, naturale, che scorre come se non ci fosse altro modo di far accadere le cose: «C’era chi si esaltava per il piacere che si provava a leggerlo. C’era chi lodava l’abilità con cui era stata messa a punto la protagonista. C’era chi parlava di un realismo brutale, c’era chi esaltava la mia fantasia barocca, c’era chi ammirava una narrazione al femminile morbida e accogliente»: racconta Lenù stessa a proposito del successo del suo libro. Il dialetto napoletano, che pian piano scompare, appartiene a un’epoca sempre più distante, che tuttavia talvolta inevitabilmente fa breccia nell’italiano costruito, razionale, di una classe che si pensa superiore.
Infine Lenù racconta la salvezza che, in tutto questo disordine, come bambina, ragazza, adulta e anziana, ha trovato nella complessità relazionale dell’amicizia con Lila, nella fragilità del rapporto umano. E non si può fare altro che seguirla, soffrire e gioire, guardare indietro al primo volume con nostalgia, come se fosse la propria vita ad essere narrata.