L’ultimo viaggio della « bambina delle rondini »
Romina Casagrande racconta la storia di due ragazzini della Val Venosta che, come tanti, venivano venduti in Germania per lavorare come braccianti

di ASIA DELLA BRUNA

Come le rondini, partivano in primavera e tornavano in autunno. Lasciavano Val Venosta, quasi al confine con l’Austria, per raggiungere la Svevia, appena entrati in Germania: questo era il viaggio che ogni anno “i bambini delle rondini » compivano. Dal 1700 fino alla Seconda guerra mondiale, i bambini che avevano la sfortuna di essere nati in una delle zone più povere dell’Alto Adige venivano infatti venduti in Germania, come braccianti nei campi e nelle fattorie, per svolgere lavori pesanti e faticosi, senza neppure la promessa di poter tornare a casa.

È a questi bambini, e a queste vicende, forse in qualche modo volutamente dimenticate e trascurate dalla storia, che Romina Casagrande dona voce con il suo libro I bambini di Svevia. Pubblicato all’inizio del 2020 con Garzanti editore, è un romanzo storico in grado di riportare in vita un fenomeno durato tre secoli del quale pochi conoscono l’esistenza e di cui ancor meno parlano.

Filo conduttore è un’amicizia tra due bambini nata durante i mesi del loro soggiorno in Svevia. Edna e Jacob sono infatti due fanciulli che sono stati in grado di trovarsi e scegliersi in una realtà estremamente difficile e dura, permettendo ad un’affinità di nascere e crescere in un contesto fatto di sfruttamento e umiliazioni.

Il romanzo si apre con una donna ormai anziana che porta con sé la memoria di un’infanzia rubata, che si ripercuote sulle sue azioni quotidiane. L’autrice è riuscita a donare una sorta di iniziale staticità emotiva alla donna, che appare descrivibile tramite un aggettivo in questo contesto forse inusuale, ma significativo: ferma. Edna ha 90 anni e da tutta la vita aspetta un segno, qualcosa che le permetta di svegliarsi dal torpore delle stagioni e dei ricordi, per ritrovare Jacob. È proprio quando questo segno arriva, sotto forma di un annuncio di cronaca su una rivista, che Edna reagisce, riscoprendo in sé stessa una gran forza d’animo. L’autrice mostra in questa circostanza una grande dote descrittiva, non si sostituisce infatti alla voce dei personaggi per riuscire a permetterci di capire i loro stati d’animo o le loro caratteristiche, ma lascia alla descrizione degli eventi l’arduo compito di esporre i tratti psicologici e le emozioni.  

Quando Edna decide di partire, per affrontare un viaggio lungo e solitario, verso Ravensburg, in Germania, dove si trova Jacob, è accompagnata solo dal suo pappagallo. Complici, o forse responsabili, proprio quegli anni trascorsi in Svevia, l’anziana signora mostra durante il suo viaggio una volontà di fare affidamento solo su sé stessa e sulle proprie forze, rifiutando in più occasioni delle agevolazioni offerte da alcune situazioni, in nome della propria indipendenza. E forse qui troviamo un’incongruenza nella narrazione: Edna è una donna di 90 anni, è un po’ inverosimile immaginare che sia in grado di fare un tale viaggio in tale autonomia. È però altresì vero che questo viaggio assume all’interno della narrazione un significato metaforico, volto a rappresentare la speranza e l’idea di una seconda possibilità che la vita offre e alla quale bisogna dare valore. La necessità di verosimiglianza viene quindi superata e messa in secondo piano rispetto al valore metaforico.

Il romanzo è costruito su due piani narrativi temporali differenti, si intrecciano infatti le storie dei bambini con quella del viaggio dell’anziana protagonista. I momenti dedicati alle storie di Edna e Jacob da piccoli risultano di forte impatto emotivo, ciò è sicuramente dovuto anche alla consapevolezza della realtà storica che si cela dietro le vicende narrate. È però giusto sottolineare le grandi doti empatiche dell’autrice, in grado di coinvolgere il lettore tramite uno stile descrittivo molto dettagliato.

Le parti del testo dedicate al presente risultano penalizzate proprio da questo stile, lento e minuzioso. La narrazione stenta a decollare, faticando in alcuni tratti a mantenere alto il coinvolgimento del lettore, che rischia di perdersi nelle numerose descrizioni, seppur esse siano rese in maniera estremamente curata e realistica.

I bambini di Svevia è un romanzo che racconta di cicatrici che segnano l’anima più che il corpo, ma alle quali la volontà di riscatto non permette d’imporsi.  È un libro che trova il suo orgoglio nei temi affrontati, che possono essere percepiti in modi molto differenti, a seconda del lettore, della sua età e della sua volontà di affrontare un romanzo dal ritmo lento, che si prende il suo tempo. Non è un libro adatto a chi cerca in una narrazione dinamicità e pluralità di eventi. Eppure, è una storia che presenta una forte componente avventurosa, ma che va al passo di descrizioni accuratamente disegnate. Casagrande si esprime in quest’opera con una voce dal passato, che sussurra e non si impone, lasciandosi scegliere.