Giovanni Orelli, L’anno della valanga compie cinquant’anni. Questo anniversario è per lei motivo di festeggiamento o è una presa di coscienza del tempo che passa?
Per me non è un festeggiamento. Lo dico per la mia natura di contadino che mi è rimasta indosso. Del resto, i contadini badavano leggermente di più al santo che al compleanno: complice la religione. Ma sì, un’ombra di conforto c’è. Una volta all’anno o due, a un raro ospite mostro la mia biblioteca. Una volta nelle case dei contadini non c’era la biblioteca, non c’erano neanche la Bibbia o la Divina Commedia. La biblioteca era (forse) il prete, chi vuole può immaginare di che tipo, secondo le qualità di quel prete. Non certamente zero ma… Non tocchiamo questo tema enorme e non gradevolissimo. Ma ricordo sì, e con commozione, un episodio intorno al 1942, avevo 14 anni. Mio padre, per via della guerra del ’39, aveva dovuto interrompere la trasferta invernale in Francia, come marchand de marrons sostituendola con quella “naturale” di Zurigo. E una volta, sapendo che mi piaceva leggere, barattò, con uno che sicuramente aveva fame, alcune manciate di castagne arrostite con un libro casuale. Che era, non lo dimenticherò mai, Retour de l’URSS di André Gide, che divenne così autore francese a me caro che mi aprì al fertile mondo dei francesi. Come vanno certe cose!
Intravede delle prospettive future per il suo libro?
Potrei continuare a lungo con la prima domanda. Niente invece per le prospettive future circa il libro. È prospettiva che semplicemente non entra tra le mie poche prospettive. In particolare non scrivo per la prospettiva di vendere libri. Se l’anno 2018 (avrò 90 anni) ci sarò ancora (sono incerto se augurarmelo: dico per me) e sarà anno di tanta neve, di non poche valanghe, non è impossibile che L’anno della valanga venda un paio di copie in più. È forse cosa importante?
Nel 2013 avveniva la trasposizione teatrale del libro. Come accolse la notizia e quali emozioni provò da spettatore?
Non ricordo la trasposizione teatrale e non ho memoria di ripercussione sentimentale in me. Quando si pubblica un libro, se va bene, la cosa fa piacere, non solo per l’autore. Se non va bene, il libro rimane lì, aspettando anche lui tempi migliori (ma che banalità…). Un po’ meno banale è dire che un libro è meno impaziente del suo autore. Ma posso giurare che non soffro d’impazienza per i libri miei.
Il suo libro si presentava come una rottura nei confronti della precedente tradizione letteraria ticinese, penso soprattutto a Francesco Chiesa e Giuseppe Zoppi. Come fu accolto dalla critica e dal pubblico il suo romanzo nel Ticino del 1965?
Non è vero. Il mio libro non si presentava affatto come una rottura con Chiesa e neanche con Zoppi. Siamo, come scrittori, e anche come persone, naturalmente, per alcuni aspetti, di poco o di molto non so, diversi. Con piacere ricordo, e anche con una piccola punta d’orgoglio, quando feci, con Bianconi – l’intelligente ed efficace maestro Piero Bianconi – gli esami per diventare maestro di scuola maggiore. Esaminatore era anche Chiesa che mi fece allora pacati, a modo suo, elogi e mi sollecitò a continuare, diciamo così, a leggere. Un Chiesa positivamente paterno. Probabilmente non lo faceva con tutti, non so.
Uno scrittore della Svizzera italiana, nel ’65, a chi si rivolgeva? A un pubblico ticinese o italiano?
Né all’uno né all’altro. Ho scritto e scrivo (cosa per me fondamentale) per penetrare, se possibile chiarire, problemi che non sono solo miei, ma di tante donne e anche di uomini.
Gli anni sono passati, e così anche le attese dei lettori. Oggi a chi dovrebbe parlare?
Quanto alla domanda, sostituirei il “dovrebbe” con il “potrebbe”. E la risposta sarebbe: a qualcuno dei lettori curiosi. Sempre più penso alla curiosità come una virtù (non la curiosità per l’imperante pettegolezzo), non un vizio.
Il suo libro trova una sua precisa collocazione a livello tematico e stilistico, oppure mantiene una precisa autonomia all’interno della sua produzione?
Precisa no, è una qualifica che non mi va. Sono lontano – di quanto non so, non cerco di saperlo – dalla precisione. Anche scrivendo, penso, si resta “uguali” a sé, ma sempre, per fortuna, si cambia: di tanto o di poco valutino gli altri. Per la sostanza del contenuto, spero non si rimanga sempre ventenni. Quanto al modo di scrivere, si lasci lo scrittore un poco in pace. Uno ci suda anche su. Si cerca per sempre di maturare, di penetrare al meglio con le parole quello che si vorrebbe comunicare.
Oggi lei sente ancora suo il libro o se potesse cambiare qualcosa e allontanarsene lo farebbe volentieri?
Certo che lo sento mio! Quanto al mio futuro c’è ancora il desiderio di fare qualcosa di decente. Le cose già fatte come L’anno della valanga restino lì come sono, con le loro imperfezioni, come sono fatte. Quindi, né cambiare, né allontanarmene. Scherziamo? Non sono in odio con il mio passato, anche se è quel che è: un passato normale, anche in non poche cose (a cominciare dalla famiglia) fortunato.