Armando Dadò nasce nel 1937 a Cavergno, in Valle Maggia. Di origini contadine, si forma come tipografo e nel 1961 avvia la sua attività presso la Tipografia Stazione a Locarno. L’esordio della casa editrice Armando Dadò avviene nel 1965. La casa editrice è oggi tra le più importanti della Svizzera italiana e pubblica anche riviste.
A una persona proveniente da Cavergno e con poche risorse economiche, come sono venuti l’idea e il coraggio di fondare una casa editrice?
Appartenevo a un mondo di campagna, diverso da adesso; per esempio, radio e telefono entrarono in casa mia solo con i miei diciotto anni. Però da bambino volevo diventare un giornalista. Poi, un giorno, passando in Via Motta a Locarno, guardai dentro una finestra, e vidi una tipografia con una linotype in funzione. Mi fermai affascinato e mi dissi che avrei potuto iniziare a fare il tipografo, e magari più in là fare un passo avanti e diventare un giornalista. Così iniziai un apprendistato di
tipografia a Locarno, in un’azienda che i Locarnesi fuggivano, sapendo quanto si veniva trattati male, ma che faceva cadere in trappola noi della valle, contenti anche solo di riuscire ad ottenere un posto di apprendistato. Passai così quattro anni terribili, molto duri. Traumatizzato dall’esperienza e pensando che i padroni fossero tutti così, decisi di mettermi in proprio, per avere la mia libertà. Non avendo mezzi finanziari, mi rivolsi a dei conoscenti per ottenere un piccolo capitale sociale, dando avvio alla Tipografia Stazione. Qualche anno dopo, attorno al 1965, conobbi il parroco di Verscio, il don Robertini, che mi mise in contatto con il professor Giovanni Bianconi (padre di Sandro Bianconi), che aveva bisogno di stampare il libro Artigianati scomparsi. Mi occupai di quel lavoro, e in quel momento capii che, dentro di me, stampare un libro era molto più gratificante rispetto a stampare buste, carta da lettera, fatture, prospetti e lavori commerciali. Provavo una sensazione di appagamento, difficile da definire. L’esperienza del primo libro fu per me come un primo bacio, non potei accontentarmi di uno solo. Così, consapevole delle difficoltà, decisi di sviluppare il settore editoriale, finanziandolo anche mantenendo la tipografia e facendo lavori commerciali in parallelo.
Quali sono state le maggiori difficoltà della casa editrice?
Prima di tutto, inizialmente non avevo una formazione adeguata, perché non conoscevo le lingue. Anche l’italiano era quasi una seconda lingua per me, in quanto a Cavergno tutti parlavano dialetto. Mi mancavano anche nozioni teoriche su cosa fosse meglio pubblicare e sul valore dei testi: agli inizi non distinguevo la saggistica dalla narrativa! E non avevo il coraggio di fare una domanda così umiliante. Mi muovevo un po’ per istinto. Il secondo tipo di difficoltà era la costante preoccupazione per la sopravvivenza finanziaria della casa editrice. Nei primi sette anni di attività non ho fatto neanche un giorno di vacanza, lavoravo anche il sabato, e la domenica studiavo per migliorare le mie conoscenze. La terza difficoltà era la mancanza di una clientela, quindi viaggiavo in tutto il cantone per cercare di acquisire clienti, anche con la tipografia, per poter stampare, fatturare e avere i soldi a fine mese per le paghe e gli altri costi. Un’ultima difficoltà è stata la geografia. Abitavo a Cavergno, e già Locarno era periferia… finivo per perdere molto tempo nei viaggi a Lugano o a Bellinzona, quindi in questo senso la geografia non mi facilitava nemmeno la conoscenza delle persone.
A proposito di conoscenze: quali tra gli intellettuali conosciuti sono stati i più importanti?
L’ambito relazionale era quello in cui avevo una fortuna di partenza: sono sempre stato portato per approcciare le persone, infatti creo facilmente contatti, e li nutro. Questo mi ha portato a conoscere degli autori come Giovanni e Piero Bianconi, personalità importanti nel mondo culturale, con cui ho iniziato a pubblicare libri. Poi ne sono venuti altri: Mario Agliati, il fotografo Alberto Flammer, Plinio Martini, mio maestro di scuola elementare, Pierre Codiroli, l’ispettore Giuseppe Mondada. Quando un autore si convinceva a pubblicare un libro da noi, diventava facilmente un mio amico. Inizialmente erano conoscenze locali, poi anche fuori dal cantone. Per esempio, in Italia un mio amico è stato Indro Montanelli, maggior giornalista dell’epoca, con cui mi trovavo qualche volta a pranzo a Milano, incontri di grande interesse per me. Oltre a lui, avevo contatti anche con Giancarlo Vigorelli e Italo Alighiero Chiusano. Le conoscenze di personalità importanti del mondo culturale mi hanno aiutato anche a livello piscologico, oltre a permettermi di acquisire una certa visibilità, visto che inizialmente venivo poco considerato.
Passando alla casa editrice nel Ticino di oggi, quante proposte di pubblicazione ricevete e quali criteri vi permettono di scegliere le opere da pubblicare?
Troppe, quasi una al giorno. Per prima cosa decidiamo se scartare immediatamente testi che già a prima vista è possibile riconoscere come non validi. Poi consideriamo la qualità della scrittura, e poi se l’argomento può essere interessante per il pubblico. Per quanto riguarda le proposte dall’estero la situazione è più complessa, perché per noi è difficile pubblicare autori non svizzeri, in quanto il Cantone e la Pro Helvetia ci sovvenzionano una parte dei costi, ma solo per i libri nazionali. Anche gli argomenti che trattiamo sono spesso di carattere cantonale o nazionale.
Per orientarci tra le cifre, quante copie vende un libro in Ticino? Quali libri vendono meno?
In passato si vendeva di più, per esempio dei libri di Bianconi vendevano dalle cinque alle diecimila copie. Oggi se vendiamo mille copie di un libro la riteniamo già una buona vendita, mentre dalle due alle cinquemila copie si parla di successo. Molti libri vendono meno, magari non arrivano alle mille copie. Se un libro è particolare, raffinato e singolare, può venderne anche solo trecento. Per esempio, abbiamo pubblicato Philippe Jaccottet, ma nonostante sia un poeta di assoluta qualità non è un autore per il quale le folle si sgomitano per entrare in libreria. Non è facile vendere la poesia, per esempio anche Fabio Pusterla non ha delle grandi vendite.
E invece, cosa rende un libro di successo in Ticino?
È difficile dire quali libri si vendano di più, ognuno ha la sua storia e il suo mistero. Proprio adesso stiamo stampando un libro sulla criminalità nel mondo finanziario ticinese: ne venderemo cinquecento copie o tremila? È difficile dirlo. È vero, però, che con autori già noti e collaudati è più facile vendere, mentre, per esempio, traducendo autori della Svizzera tedesca o francese, non conosciuti dalle nostre parti, le vendite sono più contenute ed è necessaria una consistente azione di promozione. Un caso interessante è quello di Amiel, uno scrittore ginevrino autore di un ampio diario in vari volumi, con una scrittura molto raffinata. Ne abbiamo pubblicato uno dal titolo Philine nel 2005. Abbiamo stampato mille copie, e circa la metà sono state vendute nei primi anni, finché non si è bloccata la vendita. Eppure, sei mesi fa, in Italia, ne sono state acquistate trenta copie, altre venti, altre quaranta… così, nello spazio di sei mesi, si è esaurita completamente la tiratura, e le copie che da tempo giacevano in magazzino se ne sono andate. Quindi, in questi giorni lo abbiamo dovuto ristampare. Succedono delle cose strane nel mondo dei libri.
Se è difficile dire quali libri vendono di più, nella sua esperienza ha notato qualcosa in comune ai buoni scrittori?
Secondo me è importante avere qualcosa da dire, non solo conoscere la lingua e i suoi meccanismi. Facilmente, anche se non sempre, quelli che hanno qualcosa da dire sono persone che hanno sofferto. Materialmente, per una condizione sociale inferiore o per problemi di salute, o interiormente, per depressione, problemi legati al loro carattere e la loro natura, o per stranezze. Se c’è dietro la sofferenza, facilmente c’è una maggior sensibilità e producono qualcosa di più profondo.
Lei nel tempo libero legge molti libri?
Ho letto molto, oggi un po’ meno per qualche problema alla vista. Leggevo circa tre ore al giorno, contando anche qualche rapida lettura dei giornali, i tre ticinesi, La Repubblica e Il Corriere della Sera, oltre ad alcune riviste. Devo ammettere che leggevo anche un po’ di quello che ci arrivava da stampare. Riguardo agli autori, ho una predisposizione per i francesi: Proust, Montaigne, Madame de Staël, Benjamin Constant, Balzac, Stendhal, Victor Hugo. Ho letto anche molto di storia: la Francia, la Rivoluzione, la storia dell’America, dell’Italia, dell’Inghilterra. Mi piacciono le biografie di personaggi del passato che hanno avuto ruolo nella storia, per esempio Ivan il Terribile o Pietro il Grande. Ho letto anche narrativa e saggistica, sempre in particolare cose francesi. Riguardo a opere che ho apprezzato, citerei le Memorie d’oltretomba di Chateaubriand. Un’autrice invece italiana che reputo di grande valore è Benedetta Craveri, che ha pubblicato il libro La civiltà della conversazione.
Come vede il futuro della casa editrice e dell’editoria ticinese?
Il futuro è legato a come si trasforma il mondo ma anche a come si trasformano le persone. Non so ancora se uno dei miei figli avrà voglia, e in quale misura, di portare avanti la casa editrice. Riguardo al futuro del più ampio contesto editoriale ticinese, se un domani nessuno leggerà i libri e tutti useranno solo i mezzi elettronici non ci sarà più scopo di stamparne, ma personalmente sono ottimista—non in modo irrealista—ma penso che il libro continuerà ad avere una sua vita, i suoi cultori. Ci sarà ancora chi avrà il piacere di leggerlo, di sottolineare le frasi ritenute interessanti, di regalarlo agli amici, di tenerlo come compagno di viaggi in treno, o di usarlo per memorizzare qualche riga, dando alla fidanzata l’impressione che sia farina del proprio sacco.