« Dalla prigionia mentale della dittatura si è generata la mia poesia »
Eliza Macadan, poetessa poliglotta formatasi durante il regime di Ceauşescu, spiega come il desiderio di evadere dalla propaganda l'abbia spinta a trovare modi per dire quel che pensava veramente

Eliza Macadan

di MEDEA LEONARDI

Eliza Macadan è una poetessa e traduttrice rumena poliglotta attualmente residente a Bucarest, ma che ha vissuto in Italia per ben otto anni. La sua esperienza nella Penisola l’ha avvicinata alla lingua italiana, in cui ha poi scritto alcune poesie, pur continuando a comporre anche in rumeno e in francese. I suoi libri di versi hanno ricevuto riconoscimenti in Romania, Francia e Italia. L’esordio italiano è avvenuto nel 2001, con la raccolta Frammenti di spazio austero (Libroitaliano), seguita da Paradiso riassunto (Joker, 2012), Il cane borghese (La Vita Felice, 2013), Anestesia delle nevi (La Vita Felice, 2015), Passi passati (Joker, 2016), Pioggia lontano (Archinto, 2017), e il poemetto Zamalek, solo andata (Terra d’Ulivi, 2018). Ha partecipato al primo festival della poesia italiana in Svizzera, tenutosi il 28 ottobre 2021 all’Università di Losanna, e qui l’abbiamo incontrata. 

Quando ha iniziato a scrivere poesia? C’è stato qualcuno o qualcosa che l’ha avviata alla scrittura?

Sono quasi certa che le basi per la vocazione poetica si creino durante la prima infanzia, nella fase anteriore all’alfabetizzazione. Comunque, per quel che mi riguarda, è stata soprattutto mia mamma ad avviarmi alla scrittura, attraverso la sua passione per la letteratura e per il fatto che ci teneva che io recitassi e non leggessi i testi poetici. Va detto però che io credo che in tutte queste forme di manifestazione creativa ci sia anche qualcosa di genetico. 

Chiaramente c’è anche stato il periodo storico in cui sono cresciuta, durante il regime totalitario di Ceauşescu. I programmi scolastici del regime prevedevano l’obbligo di scrivere poesie per glorificare le personalità del momento, ed eravamo dunque costretti a scrivere su un solo tema e con uno stile prestabilito. Questa forma di prigionia della mente ha spinto spesso, nella scrittura, a cercare altri modi per dire ciò che si sentiva veramente. Per la letteratura, ma soprattutto per la poesia, queste forme di censura hanno prodotto miracoli, perché hanno creato nuovi linguaggi. 

Com’è il suo processo di scrittura? Si siede e cerca le parole oppure ogni volta che le viene l’ispirazione estrae un pezzo di carta e scrive?

Secondo me un testo poetico che richiede tanta lavorazione non è più poesia. Un testo lavorato con troppa cura è paragonabile a una persona impeccabile dal punto di vista della cortesia ma che con te non ha nulla a che fare. Dev’esserci quella scintilla – un evento, una sofferenza, un viso, una foglia, può essere di tutto – che ti fa scrivere d’impulso dei versi. Quelle piccole epifanie possono dare poesie che ti sono estranee, ed è come se tu fossi stato scelto per scriverle. Poi, questi versi forse rimangono lì per sempre e quando torni a quel quadernino non ci fai caso; oppure, dopo averli scritti, tutta la giornata può essere inconsciamente impegnata a cercare di capire cosa hai scritto e ad esserne meravigliato. 

Le è già capitato di trovarsi nella situazione in cui non trovava parole adatte a descrivere quello che sentiva?

Torniamo di nuovo al concetto del bambino: quando un bambino scopre una nuova parola, si meraviglia, la dice, la ripete, la dice in modo sbagliato. Anche senza conoscerne il senso, i bambini giocano con le parole. Credo che la destrezza con la lingua sia l’ingrediente fondamentale, essere capace anche di malformarla; si possono usare anche parole conosciute ma un po’ distorte. Come dice la critica, l’unico che si può permettere di creare linguaggio è il poeta. È una grande responsabilità, ma finché la parola del poeta non viene gettata nel linguaggio comune, si tratta di un fatto strettamente artistico. Sono cose che non sempre vengono capite.

Ho notato che nelle sue poesie non fa mai uso della punteggiatura: c’è un motivo particolare all’origine di questa sua scelta?

È stata una scelta consapevole. Prima della pubblicazione del mio esordio nel 1988, sui miei fogli apparivano punti, virgole, maiuscole, ma in quell’anno ho scelto di eliminare tutto ciò. È stato come acquistare una libertà, perché questo libera dalla pressione di dover decidere e capire dove inizia e dove finisce la frase, e quindi il senso. In questo modo la poesia può acquistare sensi diversi a seconda del lettore. 

Pensa che la sua poesia possa aiutare in qualche modo coloro che la leggono?

Non lo so, ma io penso che là fuori ci siano persone come noi, che sentono come noi, e che hanno vissuto quasi le nostre stesse esperienze. 

Il suo poemetto, Zamalek, solo andata, è nato da un’ispirazione particolare? Ha un’idea di fondo, un fil rouge? 

Zamalek è un poemetto di venti testi, ed è stato un esperimento. Le venti poesie sono state scritte in venti notti. Ho scritto un testo senza lavorarlo e senza rimetterci mano, infatti, quando Zamalek è stato poi inserito nell’ultima raccolta, è stato chiamato Lettere di fretta, come quelle che ho scritto in venti sere. Questi testi sono dunque scaturiti ascoltando la storia di una persona che non conoscevo, dalla sua infanzia fino al momento in cui ci siamo conosciuti, e l’ho chiamato “Poemacome d’amore”. 

Perché scrive in più lingue? Con quali criteri decide in che lingua scrivere una determinata poesia? 

Vado a sensazioni. Dopo il romeno, ho scelto di scrivere in italiano – ma prima scrivevo anche in francese. Volevo capire se lo stesso messaggio potesse avere lo stesso effetto anche in un’altra lingua. Quando scrivo in inglese, per esempio, sento che tutto quello che dico va in un’altra direzione. Sono certa che quindi ogni lingua, in modo intrinseco, abbia le proprie capacità, uniche, di creare sensi e di partecipare alla vita – perché mi piace credere che tutte queste forme di linguaggio sono i principali nostri punti di riferimento nell’esistenza terrena.