Violenza di genere. Se amare è questione di vita o di morte
Intervista alla presidente dell’associazione no profit “Armònia”

di ILARIA GARZONI

Linda Cima-Vairora, di formazione psicoterapeuta e sessuologa, oltre a gestire uno studio privato a Tenero, è la presidente del comitato direttivo dell’associazione ticinese no profit Armònia, che dal 1991 si occupa di fornire sostegno alle donne che vivono situazioni di disagio sociale e psicologico, legato alla violenza domestica, mettendo a disposizione anche una struttura in grado di ospitare le donne e i loro bambini per periodi di tempo determinati: Casa Armònia. Dal 2006, inoltre, l’associazione gestisce il Consultorio Alissa, uno spazio di consulenza aperto a donne e uomini che incontrano difficoltà nella relazione di coppia o all’interno della propria famiglia, finalizzato all’informazione e alla tutela delle vittime di tale disagio. Dal 2016, infine, l’associazione dispone anche di uno spazio destinato alle donne che possono lasciare Casa Armònia -poiché il loro percorso all’interno di essa si è concluso-, ma che ancora non hanno trovato un’altra sistemazione (l’Appartamento).

All’interno del sito viveresenzaviolenza.ch, creato nel 2017 in collaborazione con varie persone che come voi fanno capo ad associazioni ed enti che da anni sono impegnati attorno alla tematica della violenza sulle donne e domestica, compare una rubrica dedicata alle varie forme di violenza esistenti, tra cui si distinguono la violenza psicologica, la violenza fisica, la violenza economica, la violenza sessuale e lo stalking. Tenendo conto di questo quadro differenziato, in che modo si manifesta principalmente la violenza domestica? Quali sono i segnali d’allarme che possono aiutarci ad identificarla?

Inizialmente il disagio può manifestarsi con reazioni appena accennate d’insofferenza, che col tempo portano a qualche litigio; poi la reazione può oltrepassare la misura e sfociare in forme di aperta ostilità, fino ad arrivare alla violenza fisica. Purtroppo, la violenza psicologica, proprio per la sua specificità, è spesso riconosciuta come tale tardivamente. Le coppie molto problematiche hanno tensioni e disaccordi tali per cui è difficile capirsi e chiarirsi. Dalla nostra esperienza riguardo al maltrattamento coniugale abbiamo potuto osservare quanto questo sia connesso con una grossa difficoltà, se non incapacità, di comunicazione all’interno della coppia e della famiglia, aggravata, a volte, da situazioni esterne, o da importanti patologie della struttura di personalità e da credenze arcaiche riguardo la posizione del maschile nella nostra società – sia nell’uomo che nella donna -. Spesso, poi, in strutture di personalità problematiche, il rapporto è la messa in scena di situazioni traumatiche infantili (es. casi di abbandono, o di violenze subite durante l’infanzia). Inoltre, la mancanza di un’attività retribuita e problematiche di dipendenza possono fare degenerare una situazione familiare già molto problematica.

Fino a trent’anni fa, la maggior parte delle forme di violenza contro le donne era taciuta, per disinformazione, vergogna o accettazione. Oggi, grazie al lavoro svolto da chi come voi si occupa anche di prevenire i casi di violenza domestica, sempre più donne dichiarano di aver subito violenza. Come sono cambiate le cose nel corso di questi ventisette anni di attività? I casi di donne che si rivolgono a voi per denunciare situazioni di violenza domestica sono effettivamente aumentati? Si sono rilevati dei cambiamenti nella casistica?

Le donne che si rivolgono a noi non lo fanno per denunciare, ma per chiedere aiuto. Sicuramente, c’è stato un aumento della richiesta di sostegno, grazie all’informazione sempre più presente nel nostro territorio e al fatto che questo fenomeno non è più considerato una questione privata, ma un reato punibile dalla Legge. I cambiamenti delle leggi, la creazione di strutture e di nuovi servizi a cui le vittime possono rivolgersi e un aumento della consapevolezza e autostima nella donna hanno portato a una maggiore cognizione del fenomeno. In risposta, sono migliorati anche i nostri interventi: da un pionierismo iniziale -caratterizzato da una certa ingenuità-, siamo passati a una lettura più articolata e lucida della problematica, che ha permesso interventi sempre più mirati. Questo è stato possibile soprattutto grazie ai costanti momenti di riflessione e ai vari incontri di formazione tra Comitato, operatrici e collaboratori esterni competenti. Attualmente, abbiamo a che fare con situazioni più gravi a livello di disturbo patologico e con situazioni delicate anche a livello sociale. Vivendo, poi, in una società multiculturale il discorso diventa più complesso e un impegno particolarmente importante ci viene richiesto quando ci occupiamo di persone provenienti da culture diverse, poiché laddove sono presenti comportamenti e logiche diverse dalle nostre si richiede una sensibilità maggiore: da un lato queste persone vanno capite e, dall’altro, dobbiamo occuparci di trasmettere loro i valori e le regole sociali del Paese in cui sono arrivate.

A ventun anni dall’entrata in vigore della legge federale sulla parità dei sessi (01.07.96), la camera dei cantoni ha deciso (il 28.02.2018) di rinviare in commissione il dossier sulla modifica della legge federale sulla parità dei sessi. Quanto, secondo voi, la violenza domestica, che colpisce in larga maggioranza persone di sesso femminile, è la conseguenza di una realtà che ancora non riconosce alle donne gli stessi diritti degli uomini?

A mio parere solo parzialmente. Sicuramente, la situazione finanziaria fa la sua parte. Una maggior indipendenza della donna può essere difficilmente accettabile per alcuni uomini, nei quali vige ancora l’idea di una supremazia maschile legata alla propria storia familiare; ad arcaiche credenze culturali riguardo la posizione maschile nella società; e a una non accettazione dell’emancipazione conquistata dalle donne in questi ultimi decenni. Inoltre, non è da sottovalutare la struttura di personalità delle persone coinvolte.

Le donne che si rivolgono a voi per violenza subita da parte del proprio compagno (o del proprio ex compagno) si segnalano dopo il primo episodio o dopo ripetuti episodi di violenza? In quest’ultimo caso, cosa spinge la donna, sulla base della vostra esperienza, a perpetuare l’illusione che un uomo che la maltratta possa amarla e a credere che la relazione possa continuare anche dopo una minaccia, una sberla o un’umiliazione?

Generalmente, si rivolgono a noi dopo diversi episodi di violenza. Le ragioni per cui una donna non reagisce alla violenza possono essere molteplici. Molte donne fanno fatica a ribellarsi, da un lato per il timore che una loro reazione possa aumentare l’aggressività del partner, e dall’altro perché sono spaventate dalle incognite che la rottura della relazione comporterebbe sia per loro sia per i loro figli. Non si sentono in grado di fare scelte di cambiamento e immaginano che non sia possibile trovare comprensione e aiuti concreti. Sicuramente, anche aspetti culturali e di mentalità possono frenare la richiesta di aiuto. Purtroppo, per alcune persone la relazione di coppia è molto dolorosa e complicata. Le “coppie normali” (in quanto esprimono un comportamento presente nella maggior parte delle persone) possono avere delle divergenze, ma poi ci si confronta. Ci si chiede cosa sta succedendo, perché l’altro la pensa così, perché ha una certa reazione. Le crisi possono trovare poi delle soluzioni che rafforzano il legame. Nella coppia molto problematica, patologica, ci sono invece delle tensioni croniche, dei disaccordi profondi e nel contempo un forte legame tra i partner. Per lavorare in questo contesto è importante avere un concetto chiaro della violenza domestica, capire le dinamiche della relazione perversa e comprendere che le due persone coinvolte sono legatissime. Per noi che non viviamo questo tipo di problema la relazione è basata sul desiderio, mentre per loro, che vivono un problema di violenza molto pesante, è una questione esistenziale, basata sul bisogno: l’uno senza l’altro non esiste. È proprio per questa ragione che avviene il passaggio all’atto (nel peggiore dei casi queste persone uccidono o si uccidono), ed è per questo che molte donne, malgrado la violenza subita, tornano con il proprio partner.

Dalle statistiche apparse il 24.03.2018 sul quotidiano ticinese LaRegione, si apprende che nel 2017 il numero di interventi da parte della polizia per violenza domestica è cresciuto, rispetto all’anno precedente, del 30%. In tutto sono state registrate 1080 operazioni, il cui 75% per casi di violenza tra coniugi o ex coniugi. Nel 2016, invece, solo dalla vostra associazione sono state registrate 1090 chiamate, tra segnalazioni, richieste d’informazioni e consulenze telefoniche. La domanda, che sorge spontanea, è: quante donne, vittime di violenza domestica, si sentono davvero libere di denunciare alla polizia quello che dal 2004 è considerato dalla Legge un reato perseguibile d’ufficio (ossia senza querela di parte)? Esistono ancora, effettivamente, dei pregiudizi nei confronti delle donne che denunciano episodi di violenza domestica?

La violenza nei confronti delle donne, come detto prima, è stata riconosciuta solo in questi ultimi anni come crimine e come ostacolo al raggiungimento di un’uguaglianza intesa come parità. All’inizio della nostra attività c’erano molti pregiudizi, mentre ora la situazione è nettamente cambiata, nonostante qualche pregiudizio sia ancora presente. Anche se questo tipo di problema si riscontra all’interno della sfera privata, è ora finalmente considerato un problema sociale non trascurabile. Inoltre, come affermato precedentemente, la consecuzione dell’aumento della consapevolezza e dell’autostima nella donna e la creazione di strutture e di nuovi servizi a cui le vittime possono rivolgersi -da quanto abbiamo potuto osservare nella nostra esperienza- hanno contribuito ad un lieve miglioramento della situazione: le donne chiedono più spesso aiuto e, per alcune, questo coincide con la possibilità di un concreto cambiamento. Considerato tutto ciò, la donna fa comunque molta fatica a denunciare; penso che la paura della reazione del partner abbia un ruolo fondamentale.

Le donne che hanno trascorso un periodo all’interno dalla vostra struttura Casa Armònia, in che modo vivono il ritorno alla quotidianità? Temono un nuovo contatto con il loro aggressore o si sentono davvero sicure? Vengono garantite delle misure di protezione al di fuori della struttura?

Dipende dal percorso fatto dalla donna e dalla sua struttura di personalità. Alcune escono piuttosto sicure e iniziano una nuova situazione di vita, altre tornano con il partner con la speranza che qualcosa sia cambiato. Generalmente, però, nelle donne vi è sia il timore di affrontare una nuova situazione di vita, sia la paura di riprendere il tipo di vita già conosciuto. Tuttavia, non ci sono misure di sicurezza prestabilite, ma la polizia conosce i casi ed è pronta ad intervenire.

Che tipo di collaborazione intrattiene oggi l’Associazione Armònia con lo Stato e i relativi servizi?

La rete di collaborazione tra servizi, enti, professionisti e polizia presenti sul territorio è molto buona. Le nostre strutture sono riconosciute e sussidiate dal Cantone. Finanziariamente, da un piccolo sussidio iniziale, siamo passati a un contratto di prestazione con lo Stato (per quanto riguarda le spese vive) e nel corso degli anni si è pure consolidato il sostegno finanziario di soci e sostenitori, che ci permette di dare maggiore qualità ai nostri interventi.

Dal vostro rapporto d’attività del 2016, si evince che delle ventiquattro donne ospitate presso la struttura Casa Armònia nel corso dell’anno, quindici erano straniere e due di loro non avevano alcun permesso all’infuori del visto turistico. Può contribuire allo sviluppo di relazioni problematiche una scarsa integrazione da parte delle donne nella società? È importante per le donne che sono già state vittima di violenza ritrovare la propria autonomia -economica e non-?

Più che di scarsa integrazione, parlerei di modelli familiari in cui le persone sono cresciute, che le portano ad accettare comportamenti conosciuti. Noi accogliamo soprattutto donne straniere -diverse delle quali sposate con uomini svizzeri- poiché le indigene, conoscendo il territorio e avendo amici e parenti in Ticino, trovano più facilmente altre soluzioni. Tuttavia, continuano a rivolgersi a noi anche donne svizzere e ticinesi. Sicuramente, l’indipendenza economica è fondamentale.

D’altro canto, dal rapporto si apprende che 18 delle 24 donne ospitate nel 2016 avevano un impiego remunerato, o comunque erano in formazione. Poiché spesso si tende a pensare che le donne soggette a violenza siano necessariamente donne fragili, caratterizzate da una situazione lavorativa o familiare già di per sé precaria, vi domando: cosa può portare una donna qualificata e il cui nucleo familiare non presenta problematiche particolari, a ritrovarsi nelle mani di un uomo violento e dall’atteggiamento intimidatorio?

Come abbiamo potuto constatare attraverso l’informazione, il problema della violenza domestica è trasversale, presente in tutti i Paesi, classi sociali e culture del mondo. Il fenomeno sta assumendo nel tessuto sociale dimensioni sempre più preoccupanti e richiede un rinnovato impegno da parte di tutti gli operatori presenti sul territorio. Una donna qualificata può arrivare da noi poiché ha una struttura di personalità particolare: può essere razionalmente molto valida, ma emotivamente molto fragile, esageratamente bisognosa di amore, e questo la fa entrare in un rapporto di dipendenza affettiva (v. risposta alla domanda no. 5).

Sappiamo che la violenza di genere viene quasi sempre associata alla violenza sulle donne, mentre del caso contrario -un fenomeno di netta minoranza- non si parla praticamente mai. Eppure, all’interno della descrizione del consultorio Alissa, messo a disposizione dalla vostra associazione, compare chiaramente che si tratta di “uno spazio di consulenza aperto a uomini e donne”. Avete avuto casi di violenza in cui la vittima era l’uomo?

Da quanto rilevato da Cornelia, operatrice al Consultorio Alissa, “la motivazione principale delle chiamate, sia da parte delle donne che da parte degli uomini, è la volontà di richiedere informazioni sui propri diritti, sui propri doveri e sulle conseguenze inerenti la separazione, il divorzio, e le questioni legate agli alimenti o ai diritti di visita. Ci sono poi anche stati alcuni casi di uomini che ci hanno parlato di subire violenze psicologiche, ma mai violenze fisiche”.